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Robert Silverberg

Gilgamesh

1

Nella città di Uruk c’è una grande piattaforma di mattoni cotti che fu il campo da gioco degli Dei, molto tempo prima del Diluvio, in quell’epoca in cui il genere umano non era stato ancora creato e solo gli Dei abitavano la Terra. Da diecimila anni, ad intervalli di sette anni, dipingiamo di bianco i mattoni della piattaforma con un intonaco di gesso fine, cosicché la piattaforma lampeggia come uno specchio enorme sotto l’occhio del sole.

La Piattaforma Bianca è il dominio della Dea Inanna, a cui è consacrata la nostra città. Molti Re di Uruk hanno erette Templi sulla piattaforma per adorare la Dea. Ma nessuno di tutti quei santuari ha superato quello costruito dal mio regale nonno, l’Eroe Enmerkar.

Mille artigiani lavorarono venti anni per costruirlo, e la cerimonia della consacrazione durò senza sosta undici giorni e undici notti, e durante quel periodo la luna fu avvolta ogni notte da un profondo manto di luce blu in segno di omaggio ad Inanna.

«Noi siamo i figli di Inanna», cantava la gente, «Enmerkar è suo fratello, e lei regnerà in eterno».

Nulla resta adesso di quel Tempio, perché io lo feci abbattere dopo la salita al trono, e ne feci erigere uno ancora più splendido al suo posto. Ma nella sua epoca fu una delle meraviglie del mondo. È un luogo che avrà sempre un significato particolare per me: all’interno dei suoi sacri recinti, un giorno della mia infanzia, fui illuminato dalla saggezza, la linea della mia vita fu formata, e io presi una strada da cui non c’è ritorno.

Fu il giorno in cui i servi del Palazzo interruppero i miei giochi e mi portarono a vedere mio padre il Re, il Divino Lugalbanda, partire per l’ultimo viaggio.

«Lugalbanda va nel grembo degli Dei», mi dissero, «vivrà per sempre nella gioia, berrà il loro vino, e mangerà il loro pane».

Credo e spero che avessero ragione, ma potrebbe anche essere che l’ultimo viaggio abbia invece portato mio padre nel Paese del Non Ritorno, nella Casa della Polvere e delle Tenebre, dove il suo fantasma si trascina tristemente come un uccello dalle ali mutilate, nutrendosi di argilla secca. Non lo so.

Io sono colui che chiamate Gilgamesh. Sono il pellegrino che ha visto tutto all’interno dei confini del Paese, e all’esterno. Sono l’uomo a cui furono fatte conoscere tutte le cose, le cose segrete, le verità della vita e della morte, particolarmente quelle della morte. Mi sono accoppiato con Inanna nel Ietto del Matrimonio Sacro. Ho ucciso Demoni e parlato con Dei. Io stesso sono per due terzi divino, e solo per un terzo mortale. Qui ad Uruk sono Re e, quando cammino per le strade, cammino solo, perché nessuno osa avvicinarsi troppo a me. Non avrei voluto che fosse così, ma è troppo tardi per cambiare le cose ormai. Sono un uomo isolato, un uomo solo, e così sarà fino alla fine dei miei giorni. Una volta ebbi un amico che era sangue del mio sangue, anima della mia anima, ma gli Dei me lo tolsero ed egli non tornerà mai più.

Mio padre Lugalbanda deve aver conosciuto una solitudine molto simile alla mia, perché anche lui era un Re e un Dio, e un grande Eroe del suo tempo. Certamente queste cose lo separarono dagli uomini normali, così come sono stato separato io.

Dopo tutti questi anni, nella mia mente è ancora nitido il ricordo di mio padre: un uomo dalle grandi spalle e dall’ampio torace, che girava a torso nudo in tutte le stagioni, coperto solo dalle pieghe del lungo panno di lana, dai fianchi alle caviglie. La sua pelle era liscia e scurita dal sole, simile a cuoio raffinato, e aveva una barba folta, nera e riccioluta, alla maniera del popolo del deserto sebbene, diversamente da loro, si rasasse il capo. Più di tutto ricordo i suoi occhi scuri, vivi ed enormi, che sembravano riempirgli tutta la fronte. Quando mi sollevava da terra e mi avvicinava al suo volto, a volte pensavo che sarei precipitato nel grande lago di quegli occhi e che mi sarei perso per sempre nell’anima di mio padre.

Lo vedevo di rado. C’erano troppe guerre da combattere. Un anno dopo l’altro, partiva con i carri per domare qualche rivolta nel nostro stato vassallo di Aratta, lontano ad oriente, o per scacciare le tribù selvagge e predatrici delle terre deserte, che si avvicinavano furtive ad Uruk per rubarci il grano e il bestiame. Oppure partiva per dispiegare la nostra potenza al cospetto delle nostre grandi città rivali, Kish o Ur.

Quando non era lontano per combattere, c’erano i pellegrinaggi che doveva compiere nei santuari, in primavera a Nippur, in autunno ad Eridu. Anche quando era a casa, aveva poco tempo da dedicarmi, impegnato com’era nella celebrazioni e cerimonie annuali, nelle riunioni dell’assemblea della città, nelle sedute della corte di giustizia, o nella supervisione dell’interminabile lavoro di manutenzione delle dighe e dei canali. Ma mi prometteva che sarebbe arrivato il giorno in cui mi avrebbe insegnato che cosa significa essere uomini, e saremmo andati insieme a caccia di leoni nelle terre paludose.

Quel giorno non arrivò mai. I Demoni malevoli che incombono sempre sulle nostre vite, in attesa di un nostro momento di debolezza, sono instancabili. E, quando avevo sei anni, una di queste creature riuscì a penetrare le alte mura del Palazzo, per ghermire l’anima del Re Lugalbanda e portarla via dal mondo.

Non avevo idea di quello che stava accadendo. In quei giorni, la vita era solo un gioco per me. Il Palazzo, quel formidabile palazzo dalle torrette fortificate, dalle facciate intagliate di nicchie e dalle alte colonne, era la mia casa dei giochi. Tutto il giorno correvo con un’energia che non si esauriva mai, gridando, ridendo e saltellando sulle mani. Anche allora ero molto più alto dei bambini della mia età, ed avevo una forza corrispondente; di conseguenza sceglievo sempre bambini più grandi di me come compagni di gioco, e sempre i più rozzi, i figli degli stallieri e dei coppieri, perché non avevo fratelli.

Giocavo ai carri e ai guerrieri, facevo la lotta o combattevo con la clava. Poi, un giorno, un’orda di Sacerdoti, Esorcisti e Maghi, cominciò ad andare e venire dal Palazzo. Fu foggiata nell’argilla una statua del Demone Namtaru e fu messa accanto alla testa malata del Re. Poi si riempì un braciere di cenere e all’interno fu messo un pugnale. Il terzo giorno, al calar delle tenebre, il pugnale fu tolto dal braciere e fu conficcato nella statua di Namtaru. La statua fu murata in un angolo, e si fecero libagioni di birra. Un giovane maiale fu ucciso e il suo cuore fu immolato per placare il Demone. Si spruzzò acqua e si cantarono costantemente preghiere.

Ogni giorno Lugalbanda lottava per la sua vita e perdeva una piccola parte della lotta. Di tutto questo non mi si disse nemmeno una parola. I miei compagni di gioco si intristirono e sembravano aver paura di correre, urlare e combattere con la clava. Non sapevo perché. Non mi dissero che mio padre stava morendo, sebbene lo sapessero e sapessero anche quali sarebbero state le conseguenze della sua morte, ne sono certo.

Poi, una mattina, un maggiordomo del palazzo venne da me e disse: «Metti da parte la clava, bambino! Niente più giochi! Hai da fare una faccenda da uomini!» Mi ordinò di lavarmi e indossare la mia bella tunica di broccato, di mettermi intorno alla fronte la benda di foglie d’oro e di lapislazzuli, e di andare nell’appartamento di mia madre, la Regina Ninsun. Dovevo accompagnarla al Tempio di Enmerkar, disse il maggiordomo.

Andai da lei, senza capire il perché, visto che quello non era un giorno sacro a me noto. Trovai mia madre vestita con magnificenza, con un mantello di lana cremisi, un’acconciatura splendente di cornaline, topazi e calcedonie, e pettorali d’oro da cui pendevano amuleti a forma di pesce o di gazzella. Aveva gli occhi anneriti dal kajahl e le guance dipinte di verdescuro, cosicché sembrava una creatura emersa dal mare. Non mi disse niente, ma mi legò al collo una statuetta in pietra rossa che raffigurava il Demone del Vento, Pazuzu, come se temesse per me. Mi sfiorò la guancia con una mano. La sua pelle era fredda.