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La tavoletta diceva: Scappa subito da Uruk. Dumuzi ha intenzione di farti uccidere.

Era firmata con il Sigillo di Inanna.

La mia reazione immediata fu di cieca sfida, di rabbia. Il cuore mi batteva impetuoso, le mani si strinsero in un pugno. Chi era Dumuzi che si permetteva di minacciare il figlio di Lugalbanda? Che cosa dovevo temere da un lumacone intorpidito come lui? E poi pensai: il potere della Dea è più grande del potere del Re, di conseguenza non ho bisogno di scappare dalla città. Inanna mi proteggerà.

Mentre camminavo avanti e indietro, acceso dalla rabbia, uno dei miei servi entrò nella stanza. Mi vide adirato e cominciò ad indietreggiare, ma io gli ordinai di fermarsi.

«Che cosa c’è?», domandai.

«Due uomini, o Signore… due uomini sono venuti qui…»

«Chi erano?»

Per un attimo le sue labbra non riuscirono a formare le parole. Poi ce la fece.

«Schiavi di Dumuzi, credo. Portavano la sua fascia rossa intorno alle braccia.» Gli occhi gli scintillavano per la paura. «Avevano i coltelli, mio Signore. Erano nascosti tra le loro vesti, ma io ne ho scorto il bagliore. Mio Signore… mio Signore…»

«Hanno detto che cosa volevano?»

«Parlare con te, hanno detto.» Barcollava. La paura gli fece impallidire e raggrinzire il volto. «Io ho d-d-detto che eravate con la D-Dea, e loro hanno risposto che torneranno… t-t-t-torneranno questa sera…»

«Ah,» dissi piano. «Allora è vero.» Lo afferrai per un lembo della tunica, lo trassi a me, e sussurrai: «Fa’ la guardia! Se li vedi nelle vicinanze, chiamami subito!»

«Si, Signore!»

«E non dire a nessuno dove sono!»

«Nemmeno una parola, o Signore!»

Gli diedi il permesso di andare, e lui si allontanò di corsa. Ripresi a percorrere la stanza a grandi passi. Avevo la gola asciutta e tremavo, non tanto per la paura, quanto per la rabbia e il dispiacere. Che cos’altro potevo fare oltre che scappare?

Compresi la follia di quello che avevo pensato qualche attimo prima, quando mi sentivo così audace. Potevo continuare ad essere audace, si, ma sarei sicuramente morto per la mia audacia. Quanto ero stato presuntuoso! Mi ero chiesto chi fosse Dumuzi che si permetteva di minacciare il figlio di Lugalbanda? Ebbene, Dumuzi era il Re, e sarei stato ucciso, se così decretava. E se Inanna avesse avuto la possibilità di proteggermi, perché mi avrebbe avvisato di fuggire?

Mi sentivo sull’orlo di un abisso. Non potevo indugiare nemmeno un momento, lo sapevo, nemmeno per avere spiegazioni. In un battito di ciglia, Uruk era persa per me. Dovevo andarmene e andarmene in fretta, senza neanche fermarmi a dire addio a mia madre, o ad inginocchiarmi davanti al Santuario di Lugalbanda. In quel momento i due assassini mandati da Dumuzi forse stavano tornando a cercarmi. Non potevo esitare.

Non intendevo stare lontano per molto tempo. Avrei trovato rifugio in un altra città per qualche giorno, oppure, se necessario, per un paio di settimane, finché non avessi saputo che cosa avevo fatto per inimicarmi il Re, e come si poteva riparare il danno. Allora non mi resi conto che mi accingevo a trascorrere quattro anni in esilio.

Con la mente annebbiata, le mani tremanti, preparai il bagaglio. Presi tutti gli indumenti che potevano entrare in un fagotto da portare sulle spalle: l’arco, la spada, l’amuleto Pazuzu che mi aveva dato mia madre anni prima, e la piccola statuetta di pietra verde che avevo ricevuto da Inanna quando era ancora solo una Sacerdotessa normale. Mi ero procurato una tavoletta su cui erano scritte alcune frasi magiche, utili in caso di ferita o malattia, e la presi con me, insieme ad un sacchetto di pelle pieno delle droghe che si bruciano per scacciare i fantasmi nel deserto. Infine presi un coltellino in stile antico, con l’elsa incastonata di gemme, non molto affilato, ma a me caro perché mi era stato portato da Lugalbanda al ritorno da una delle sue guerre.

Durante il primo quarto di guardia della notte, all’ora in cui sorgono le stelle, sgattaiolai dalla mia casa e percorsi con prudenza gli stretti intrichi di viuzze che portavano alla Porta Settentrionale. Cadeva una fine pioggerella. Pennacchi di fumo bianco salivano dalle lampade di diecimila case verso il cielo che si scuriva. Il cuore mi faceva male. Non avevo mai lasciato Uruk prima di allora. Non avevo idea di che cosa ci fosse oltre le mura della città. Ero nelle mani degli Dei.

Decisi di recarmi alla città di Kish. Eridu e Nippur erano più vicine e più facilmente raggiungibili, ma Kish mi sembrava una scelta più sicura. Dumuzi aveva una grande influenza ad Eridu e a Nippur, ma Kish gli era ostile. Non volevo arrivare in un posto dove mi avrebbero immediatamente impacchettato e rispedito ad Uruk in segno di gentilezza verso il Re di Uruk. Il Re Agga di Kish non provava alcun bisogno di fare favori a Dumuzi. Lugalbanda aveva spesso parlato di lui, ricordavo, e lo aveva definito un robusto guerriero, un degno avversario, un uomo d’onore. A Kish, allora: per offrirmi alla misericordia di Agga.

Kish sorgeva ad una grande distanza, a nord. Sarebbe stata una marcia di parecchi giorni. Non potevo arrivarvi via fiume. Non era possibile per una barchetta o per una zattera risalire il Buranunu dalle correnti rapide, e sarebbe stato troppo rischioso tentare di imbarcarmi clandestinamente su uno dei grandi vascelli reali che veleggiavano sul fiume e collegavano le città. Ma sapevo che c’era un sentiero per carovane che costeggiava la riva orientale del fiume. Se l’avessi seguito verso nord e avessi messo un piede davanti all’altro, prima o poi ero sicuro di arrivare a Kish.

Camminai a passo veloce, e a volte corsi al trotto. Ben presto Uruk scomparve nel buio alle mie spalle. Non mi fermai finché non arrivò l’ora centrale della notte. Ormai mi sentivo lontano da casa: sentivo di essere partito per un lungo viaggio che mi avrebbe portato negli angoli più remoti del mondo, un viaggio che non sarebbe mai finito. E quel viaggio non è ancora finito a tutt’oggi.

Quella notte dormii in un campo appena arato, avvolto nel mantello, con la pioggia che mi bagnava la faccia. Ma dormii, e dormii profondamente. All’alba mi alzai, mi bagnai nel canale fangoso di una fattoria, e feci colazione con fichi e cetrioli. Poi ripresi a camminare verso nord. Ero instancabile, pieno di energie inesauribili, e non mi turbava l’idea di camminare tutto il giorno. C’era il Dio con me che mi spingeva, come sempre, a compiere azioni straordinarie.

Il paese era più bello di quanto avessi immaginato. Il cielo era vasto e luminoso: tremava della presenza divina. Sulla pianura ampia, fertile e bagnata dal fiume, la prima erba tenera dell’autunno cominciava a spuntare sui soffici prati, dopo la forte siccità estiva. Lungo i canali le mimose, i salici, i pioppi, le canne e i giunchi erano coperti di germogli verdi. Il fiume Buranunu dalle acque scure, scorreva alla mia sinistra, il suo letto di limo si alzava sulla pianura. Sapevo che in qualche punto ad oriente, c’era un secondo grande fiume, l’impetuoso Idigna, che costituisce l’altro confine del paese: perché, quando parliamo del paese, intendiamo il territorio compreso tra i due fiumi. Tutto ciò che si trova all’esterno, non ci appartiene; tutto ciò che si trova all’interno è il dominio che ci hanno concesso gli Dei.

Dai fiumi provengono sofferenze e pericoli — i terribili torrenti, le inondazioni assassine — ma da essi proviene anche la fertilità, e io vidi i segni di quel grande dono dovunque guardassi.

Lo dobbiamo al Padre Enki. Si racconta la storia del saggio Dio che, prese le sembianze di un toro selvaggio, infilò il grande fallo nei letti asciutti dei due fiumi ed emise il seme in potenti spruzzi per riempirli dell’acqua dolce e scintillante della vita. È sempre così: l’acqua del padre rende feconda la Terra, che è la nostra madre. Fu anche Enki che, una volta che i fiumi furono riempiti del suo fertile seme, creò i canali che portavano l’acqua dei fiumi ai campi. Fu Enki a creare i pesci, le canne delle paludi, l’erba verde delle colline, i cereali e gli ortaggi delle terre coltivate, e il bestiame da pascolo, e affidò ciascuna delle sue creazioni ad un Dio particolare.