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Avevo sentito queste storie dall’Arpista Ur-kununna e dal maestro a scuola, ma mi erano sembrate solo parole. Ora erano diventate reali. Vidi i campi carichi di frumento e di orzo. Vidi le palme da dattero ricche di frutti acerbi. Vidi i gelsi e i cipressi, le viti con gli scuri grappoli scintillanti, i mandorli e i noci, le mandrie di buoi e le capre e le pecore.

Il paese era denso di vita. Nelle lagune, che erano lungo i canali, vidi i bufali che sguazzavano, grandi stormi di uccelli dai piumaggi vivaci, e tartarughe e serpenti in abbondanza. Una volta vidi un leone con la criniera nera, ma l’animale non mi vide. Morivo dalla voglia di vedere un elefante. Avevo sentito storie meravigliose sugli elefanti, ma in quella stagione si trovavano altrove. C’era, poi, una moltitudine di altri animali: cinghiali e iene, sciacalli e lupi, aquile e avvoltoi, antilopi e gazzelle.

Quando mi trovavo nei luoghi selvaggi, cacciavo lepri e oche per i miei pasti, e cercavo bacche e noci allo stesso scopo. Nei villaggi i contadini mi invitavano e dividevano con me i fagioli, i piselli e le lenticchie, la birra, i meloni dorati. Non dissi a nessuno né il mio nome né la mia provenienza. Ma il mio portamento era quello di un giovane Principe, e forse per questo furono così ospitali nei miei confronti.

In ogni caso, è un’offesa agli Dei scacciare uno straniero pacifico. Le ragazze di quei villaggi ben volentieri mi tenevano caldo la notte, e più di una volta rimpiansi di dover partire, oppure fui indeciso se portare con me qualcuna di quelle tenere compagne. Ma partivo ogni volta, e partivo da solo, ed ero solo quando infine arrivai alla grande città di Kish.

Mio padre era solito parlare con generosità di Kish.

«Se c’è una città che può con giustizia affermare di essere pari ad Uruk,» diceva, «questa è Kish.»

Penso che sia vero.

Come Uruk, Kish si stende lungo il Buranunu, cosicché trae ricchezza dal commercio fluviale tra città e città e dal commercio marittimo che risale il fiume dalle terre che si affacciano sull’oceano. Come Uruk, è circondata da mura ed è sicura. Ha una popolazione numerosa, sebbene non quanto quella di Uruk, che è probabilmente la più grande città del mondo: il mio esattore delle tasse, durante il quinto anno del mio regno, contò novantamila abitanti, compresi gli schiavi. Penso che Kish ne abbia solo due terzi, che è ugualmente una popolazione numerosa.

Molto tempo prima che Uruk diventasse grande, Kish aveva il dominio sul paese. Era all’epoca in cui il regno era disceso dal cielo una seconda volta, dopo che il Diluvio aveva distrutto le precedenti città.

Kish divenne la sede del regno, quando Uruk era ancora solo un villaggio. Ricordo che l’Arpista Ur-kununna ci cantava la storia di Etana, Re di Kish, colui il quale rese stabile tutto il paese e fu acclamato ovunque Signore Supremo. Etana fu l’uomo che si innalzò nei cieli con l’aiuto di un’aquila quando, dal momento che era senza figli, cercava la pianta della nascita che cresce solo in cielo.

Il meraviglioso viaggio di Etana di Kish gli procurò l’erede desiderato, eppure Etana dimora oggi nella Casa della Polvere e delle Tenebre, e Kish non ha più il dominio su tutto il Paese. Mentre Enmebaraggesi era Re di Kish, Uruk aveva cominciato a diventare grande. Meskiaggasher, figlio del Sole, divenne nostro Re, quando Uruk non era ancora Uruk, ma solo i due villaggi di Eanna e Kullab. Meskiaggasher si fece notare da Enmebaraggesi. Dopo di lui salì al trono mio nonno, l’Eroe Enmerkar, che creò Uruk unendo i due villaggi, e dopo di lui ci fu Lugalbanda. E, durante il regno di questi due Eroi, conquistammo la nostra indipendenza da Kish e acquistammo il nostro pieno potere, potere di cui sono stato guardiano in tutti questi anni.

A quel tempo, Enmebaraggesi era morto da molti anni e suo figlio Agga era il Re di Kish. In una luminosa giornata invernale, vidi per la prima volta la città, che si elevava sulla piatta pianura del Buranunu, dietro mura dalle alte torri, dipinte di un bianco accecante, su cui sventolavano lunghe bandiere cremisi e smeraldo.

Kish si stendeva su due colline, con due centri, uno ad oriente ed uno ad occidente, e un quartiere pianeggiante nel mezzo. I Templi di Kish sorgevano su piattaforme molto più alte della Piattaforma Bianca di Uruk, con gradini che salivano sempre più su, fino al cielo. Mi sembrava un’idea meravigliosa collocare le Case degli Dei così vicino al cielo e, quando ricostruii i Templi di Uruk, avevo in mente le alte piattaforme di Kish. Ma questo accadde molti anni dopo.

Ero impreparato al timore reverenziale che ispirava Kish. Tutto sembrava gridare: «Sono grande, sono onnipotente, sono una città invincibile.» E io ero ancora solo un ragazzino, che si era allontanato per la prima volta da casa. Ma nel mio cuore non c’era posto per la paura.

Mi presentai davanti alle mura di Kish e un custode dalla lunga barba e dall’aria cupa uscì fuori, facendo oziosamente oscillare la mazza di bronzo che caratterizzava la sua funzione. Mi guardò come se fossi un nulla, un qualche strano animale a due zampe. Restituii il suo sguardo insolente. E con la mano destra appoggiata leggera sull’elsa della spada, gli dissi: «Di’ al tuo Signore che il figlio di Lugalbanda è venuto da Uruk a rendergli omaggio.»

9

Quella sera cenai con piatti d’oro al Palazzo del Re Agga, e così cominciò il mio soggiorno di quattro anni a Kish.

Agga mi accolse con cordialità: non avevo modo di sapere se fosse per il rispetto che aveva per mio padre o per l’intenzione astuta di usarmi contro Dumuzi. Era molto probabile che fosse un po’ per un motivo e un po’ per un altro, perché Agga era un uomo d’onore, come mi era stato detto, ma era anche, in ogni fibra del suo corpo, un vero monarca, che intendeva volgere a vantaggio della propria città tutto quello che gli capitava.

Era un uomo robusto, grasso, dalla pelle rosea e dalla grande pancia, che amava la birra e la carne. Era completamente calvo. Si rasava il capo ogni mattina nella sala del trono, davanti ad un pubblico di cortigiani e funzionari. Le lame, usate dai suoi barbieri, erano fatte di un metallo bianco che non avevo mai visto, ed erano molto affilate. Agga mi disse che era ferro, il che mi lasciò perplesso, perché io credevo che il ferro fosse un materiale più scuro e non molto utile: è molle e non si può affilare. Ma poi chiesi spiegazioni ad un ciambellano, che mi disse che era un tipo speciale di ferro, caduto dal cielo nella terra di Dilmun, ed era mescolato ad un altro metallo senza nome, che gli dava quel colore e quella durezza particolare. Da allora in poi ho desiderato molte volte di avere una riserva di quel metallo per le mie armi e di conoscere il segreto della sua lavorazione, ma non sono riuscito ad ottenere né l’una né l’altra cosa.

Sia come sia, non avevo mai visto un uomo rasato meglio di Agga. Anche i suoi alti ufficiali erano senza capelli, fatta eccezione per coloro che discendevano dal popolo del deserto, i cui capelli ricci sono troppo faticosi da radere. Lo capisco molto bene, visto che i miei capelli sono simili, come lo erano quelli di Lugalbanda. Penso di avere qualche goccia di sangue del deserto nelle mie vene: lo testimoniano la mia altezza, la qualità dei miei capelli e della mia barba, sebbene il mio naso non sia affilato e aquilino come quelli del popolo del deserto. Anche se in ogni città del Paese vivono molti figli del deserto, a Kish ce n’erano molti più che in qualsiasi altro posto che ho visto. Dovevano essere la metà della popolazione, e sentivo la loro lingua, tanto diversa dalla nostra, con la stessa frequenza con cui sentivo la nostra.

Agga sapeva che ero scappato da Dumuzi. Sembrava sapere molto di quello che avveniva ad Uruk, molto più di me, in realtà. Ma non fu una sorpresa per me che un Re potente come Agga mantenesse una rete di spie nella città che era la maggiore rivale della sua. Quello che mi sorprese fu la fonte da cui provenivano le sue informazioni. Ma questo lo scoprii molto tempo dopo.