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Ad ogni città che oltrepassavamo lungo il fiume, la gente usciva fuori a salutarci. Nessuno sapeva chi stesse salutando, naturalmente, e certamente nessuno sospettava che quell’uomo regale, dalla pelle bronzea, che restituiva gli omaggi con un gesto regale, fosse lo stesso ragazzino fuggitivo che aveva ricevuto ospitalità quattro anni prima. Ma si sapeva che una flotta come la nostra doveva essere importante, e tutti stavano sulle rive a gridare e a sventolare le bandiere finché non eravamo scomparsi alla vista. C’erano almeno due dozzine di villaggi, ciascuno di mille abitanti o più: quelli a nord dovevano fedeltà a Kish, quelli a sud erano alleati di Uruk.

La notte, l’astrologo mi mostrava le stelle e mi spiegava i presagi. Conoscevo solo la luminosa stella del mattino e della sera, che è sacra ad Inanna; ma l’astrologo mi mostrò la Stella Rossa della Guerra e la Stella Bianca della Verità. Tutte queste stelle sono pianeti: vale a dire, girovaghe. Mi fece anche vedere le stelle del cielo settentrionale che seguono la via di Enlil, e quelle del cielo meridionale che seguono la via di Enki, e le stelle dell’equatore celeste che seguono la via di An. Mi insegnò a trovare la Stella del Cocchio, la Stella dell’Arco, e la Stella del Fuoco. Mi mostrò il Carro, i Gemelli, l’Ariete e il Leone. E mi impartì molte conoscenze segrete a proposito dei misteri di quelle stelle, e sul modo di interpretare le rivelazioni che offrono. Mi insegnò anche l’arte di usare le stelle per trovare il proprio cammino di notte, il che mi fu molto utile nei miei viaggi successivi.

Spesso stavo da solo nelle ore più scure della notte sulla prua della nave e parlavo con gli Dei. Chiedevo consiglio ad Enki il Saggio, ad Enlil il Potente, e al Padre del Cielo An, che si alza come l’arcata celeste su tutte le cose.

Mi fecero un grande favore entrando nella mia anima, perché sapevo che gli Dei hanno molte cose a cui badare, e che il mondo dei mortali può occupare la minima parte del loro tempo, proprio come i Re mortali non possono dedicarsi soprattutto ai bisogni dei bambini e dei mendicanti. Ma quei Principi potenti del cielo scesero su di me. Sentivo la loro presenza e questo mi era di conforto. Così capii di essere veramente Gilgamesh, vale a dire, Colui-che-è-scelto; perché non è solito per gli Dei offrire conforto, eppure essi me l’offrirono mentre navigavo verso la città di Uruk.

La mattina del quinto giorno del mese di Ululu, arrivai ad Uruk con un cielo sereno e un enorme sole bruciante. Alcuni messi ci avevano preceduti per portare la notizia del mio arrivo, e metà della città — così sembrava — mi attendeva, quando le navi approdarono alla Banchina Bianca.

Sentii il suono dei tamburi e delle trombe, poi udii cantare il mio nome, il mio vecchio nome, quello di nascita, che ben presto avrei perso. C’erano diecimila persone, credo, che si affollavano lungo l’orlo dell’Argine e che arrivavano fino ai grandi battenti con le borchie di metallo della Porta Reale.

Scesi con un lieve balzo dalla nave, e mi inginocchiai a baciare i mattoni dell’antico argine. Quando mi alzai, mia madre Ninsun era davanti a me. Era meravigliosamente bella in quella luce brillante, sembrava quasi una Dea. Le sue vesti erano cremisi a fasce d’argento, e una lunga spilla curva, d’oro, le fermava il mantello sulla spalla. Sui capelli era poggiata la corona d’argento di Alta Sacerdotessa di An, incastonata di cornaline e lapislazzuli, e splendente delle montature d’oro. Non sembrava invecchiata nemmeno di un giorno da quando l’avevo vista l’ultima volta. Gli occhi le scintillavano: in essi vidi il calore che proviene non solo dalla propria madre, ma dalla Grande Ninhursag, la Fontana del Riposo, la Madre di tutti noi.

Mi studiò per un lungo momento, e capii che mi contemplava come Sacerdotessa e come madre. La vidi osservare la statura e la forza del mio corpo, e il portamento che avevo acquisito con la virilità. Non avrebbe potuto esserci conferma della divinità di Lugalbanda più valida del corpo divino del figlio di Lugalbanda.

Dopo qualche attimo, mi tese le mani, mi chiamò con il mio nome di nascita, e disse: «Vieni con me al Tempio del Padre del Cielo, affinché io renda grazie del tuo ritorno.»

Camminammo alla testa di una grande processione che attraversò la Porta Reale e il Sentiero degli Dei. In ogni luogo santo c’era un rito da compiere. Al Piccolo Tempio, che si chiamava Kizalagga, un Sacerdote con una fusciacca color porpora accese una torcia in cui erano state inserite delle spezie, la spruzzò di olio dorato, e compì il rito del lavaggio della bocca. Nel luogo santo chiamato Ubshukkinakku, fu accesa un’altra torcia, e furono rotti dei vasi di terracotta. Nelle vicinanze del Santuario dei Destini, fu sacrificato un toro, e la sua pelle e le zampe furono bruciate e offerte. Poi salimmo al Tempio di An, dove l’Alto Sacerdote Gungunum mescolò vino e olio e fece una libazione alla porta, ungendo gli incastri e alcuni punti della porta. Quando fummo entrati, sacrificò un toro e un ariete, riempì gli incensieri d’oro e fece offerte al Padre del Cielo e a tutte le altre divinità.

Durante tutta la cerimonia non feci domande e non pronunciai nessuna parola al di fuori di quelle rituali. Mi sembrava di muovermi in un sogno. In lontananza sentivo i colpi del lilissu, che viene suonato solo in occasione delle eclissi e quando muore un Re. E capii che il Re Dumuzi era morto, e che stavano per offrire a me il trono.

Non avevo ancora avvertito la presenza della Dea. Né avevo posato lo sguardo sulla Sacerdotessa Inanna. Fino a quel momento Uruk mi aveva tenuto celata la Dea, e io ero stato solo alla presenza del Padre del Cielo, a cui è consacrata mia madre. Ma sapevo che Inanna si sarebbe mostrata presto.

«Vieni,» disse Ninsun, e passammo dal recinto sacro di An al recinto di Inanna, poi salimmo i gradini della Piattaforma Bianca verso il Tempio di Enmerkar.

Inanna mi aspettava lì.

La sua visione mi tolse il fiato per la meraviglia. Nei quattro anni della mia assenza, il tempo aveva cancellato in lei tutte le tracce della fanciullezza. Era entrata nella pienezza della sua maturità e della femminilità, e la sua bellezza era diventata irresistibile. Gli occhi scuri brillavano della vecchia scintilla maliziosa, ma anche di una strana forza al posto della vecchia ironia. Sembrava più alta, più snella, con gli zigomi più pronunciati, ma il petto era più pieno di quanto ricordassi. La pelle scura le splendeva di olio. Gli unici abiti che indossava erano gli ornamenti della Dea, gli orecchini e i lacci di lapislazzuli, il triangolo d’oro sul ventre, le gemme sui fianchi, la gemma sul naso e nell’ombelico.

Sentii il denso odore muschiato che annunciava la presenza della Dea e l’aura ronzante che annunciava quella del Dio. Il lento e costante rullio del tamburo mi penetrò nell’anima e la invase completamente, finché il tamburo non diventò me, e io non diventai il tamburo. Mi sentivo tendere alla luce del giorno, mentre i bastoncini rivestiti di feltro continuavano a percuotere il tamburo. I miei occhi incontrarono quelli di Inanna, e mi sentii attratto da quelle scure immensità, proprio come tanti anni prima, attratto dagli occhi di mio padre Lugalbanda, mi ero lasciato andare per un momento ed ero affondato in un lago di oscurità.

Lei sorrise, e fu un sorriso terrificante, il sorriso dell’Inanna-serpente.

Con voce bassa e rauca, la Sacerdotessa disse: «Il Re Dumuzi è diventato un Dio. La città è senza Re. La Dea chiede a te di assumere questo compito.»

«Lo assumerò,» dissi, come se tutta la vita avessi saputo che ero destinato un giorno a pronunciare questa frase.