Sebbene sapessi che erano stati Agga e Inanna che avevano cospirato per darmi quel trono, a loro esclusivo vantaggio, non mi importava. Se ero un Re, sarei stato un Re: nessuno mi avrebbe posseduto, nessuno mi avrebbe usato. Così giurai a me stesso: sarei stato un Re, se ero un Re. Che tremi di paura chi ha pensato che sarebbe stato diverso!
Avevano tutto pronto. Ad un segnale di Inanna, venni accompagnato in un piccolo edificio triangolare aggiunto al Tempio, dove vengono fatti i preparativi per i riti più importanti. Fui svestito e lavato da una decina di giovani Sacerdotesse, poi fui unto in ogni parte del corpo con olii dal dolce odore, i miei capelli furono pettinati, spazzolati, intrecciati e raccolti sulla nuca. Mi diedero un panno di lana a pieghe per coprirmi dalla vita in giù. Infine raccolsi tra le braccia i doni che il nuovo Re deve offrire ad Inanna, e avanzai lentamente dallo spogliatoio verso la terribile esplosione di luce di quel giorno d’estate. Poi entrai nel vestibolo del Tempio di Enmerkar. Ed andai ad esigere il mio trono.
C’erano tre troni: uno con l’insegna di Enlil, uno con l’insegna di An, e uno fiancheggiato dall’alto fascio di canne che rappresenta Inanna. C’era lo scettro. C’era la corona. E sul trono centrale sedeva Inanna, Sacerdotessa e Dea, raggiante in tutta la sua temibile maestosità.
I suoi occhi incontrarono i miei. Mi guardò intensamente come a dire: Tu sei mio, tu apparterrai a me. Ma io sostenni il suo sguardo con forza e indifferenza, come per rispondere: Tu mi giudichi male, signora, se è questo che pensi.
Poi cominciò la grande cerimonia, le preghiere e le libagioni. Ero attorniato dai funzionari del regno di Dumuzi,- i ciambellani, i maggiordomi, gli ispettori, gli esattori delle tasse, i viceré e i governatori, che presto sarebbero stati ai miei ordini. I flauti suonavano, le trombe squillavano. Accesi un globo di incenso nero, e posai i miei doni davanti ad ogni trono. Sfiorai con la fronte il pavimento davanti ad Inanna, baciai il suolo, e le consegnai i doni appropriati. Mi parve di averlo fatto mille volte. Sentivo una nuova forza scorrere nel mio corpo, come se il mio sangue fosse raddoppiato in volume, come se il mio respiro fosse il respiro di due uomini, entrambi giganteschi.
Inanna si alzò dal trono. Vidi la bellezza delle lunghe braccia e del collo grazioso. Vidi i suoi seni oscillare sotto i lacci di lapislazzuli.
«Io sono Nimpa, la Signora dello Scettro,» mi disse. Prese lo scettro dal trono di Enlil e me lo porse. «Sono Ninmenna, la Signora della Corona,» disse, e sollevò la corona dal trono di An e la posò sul mio capo. I suoi occhi incontrarono i miei; il suo sguardo era ardente.
Pronunciò il mio nome di nascita, che non sarebbe stato mai più udito nel mondo dei mortali.
Poi disse: «Tu sei Gilgamesh, il Grande Uomo di Uruk. Così hanno decretato gli Dei.» E udii il nome pronunciato da cento voci insieme, simile al rombo del fiume nella stagione della piena: «Gilgamesh! Gilgamesh! Gilgamesh!»
12
Quella notte dormii nel palazzo del Re, nel grande letto di ebano e oro che era stato di mio padre, e di Enmerkar prima di lui. La famiglia di Dumuzi aveva già lasciato l’edificio: tutte le sue mogli e le sue figlie paffute e morbide; gli Dei infatti non gli avevano concesso figli maschi. Prima che andassi a letto, riconfermai ai loro posti tutti i funzionari del regno, secondo la tradizione, benché sapessi che il mese successivo avrei rimosso la maggior parte di loro dagli incarichi. E banchettai regalmente con loro, finché la birra spillata non corse in torrenti spumeggianti lungo i canali di scolo della sala dei banchetti.
Alla fine della serata, il ciambellano delle concubine reali mi chiese se avessi intenzione di avere una donna con me quella notte. Dissi che ne volevo quante ne riusciva a procurarne; e me ne procurò sette, otto, una decina. Dalla loro brama, immaginai che Dumuzi se ne fosse servito ben poco. Mi univo una sola volta con ciascuna, poi la mandavo fuori e chiamavo la successiva. Per un attimo tra le loro braccia, mi sembrava di riuscire a colmare quel vuoto nell’anima che mi dava un tormento enorme. Ci riuscivo veramente, per un attimo, per mezz’ora, e poi il dolore mi riassaliva come una nube di tempesta. Una sola donna avrebbe potuto liberarmi da quella sofferenza, pensavo. Ma quella donna, la donna che avrei scelto per me quella notte se fossi stato libero di scegliere, non potevo averla, non allora, non finché non fosse arrivato il nuovo anno e il rito del Matrimonio Sacro. Ma io immaginavo di essere con lei, mentre premevo il mio corpo contro una o l’altra concubina.
All’alba mi sentivo ancora vigoroso. Mi alzai e andai a piedi, disdegnando i portatori, al convento delle Sante Sacerdotesse. Nel convento chiesi della Sacerdotessa Abisimti, che mi aveva iniziato alla virilità. Mi parve che nei suoi occhi ci fosse terrore, sia per la mia altezza e la mia forza, sia per il fatto che ero il Re. Le sorrisi, le strinsi una mano, e dissi: «Immagina che sia ancora quel ragazzino di dodici anni con cui fosti così gentile.»
Non fui gentile con lei quella mattina, credo. Ero diventato molto forte, ancora più forte di prima, solo per il fatto di essere salito al trono. E poi dentro di me c’era la presenza del Dio. Tre volte la presi, finché lei non giacque ansante, stordita. Era evidente che sperava che io fossi sazio. Niente avrebbe potuto saziarmi quel giorno, ma per amor suo le risparmiai altre sofferenze. Abisimti era bella quanto la ricordavo, con la pelle simile ad acqua fresca e i seni rotondi come melograni, ma la sua bellezza stava a quella di Inanna, come la luna sta al sole.
Così trascorse il mio primo giorno da Re. Un’ora dopo l’altra sentivo il potere e la grandezza scorrermi dentro. Il secondo giorno ricevetti l’omaggio dell’assemblea cittadina.
Se uno straniero dovesse chiedere come venga scelto il Re di Uruk, beh, qualsiasi cittadino gli risponderà che è scelto dall’assemblea. E in verità è così, ma non solo così.
L’assemblea sceglie, ma gli Dei dirigono, e in particolare è Inanna che, attraverso la sua Sacerdotessa, rende noto chi debba essere il Re. E il regno non passa automaticamente, come succede a Kish e in molte altre città, al figlio del Re. Noi vediamo questa faccenda in maniera diversa. Pensiamo che un uomo debba avere un’essenza divina, una sorta di grazia, che lo renda adatto ad essere Re. Se accade che questa grazia passi da padre a figlio, come era accaduto da Enmerkar a Lugalbanda, e da Lugalbanda a me, è solo perché un padre trasmette spesso le proprie caratteristiche al figlio: la statura, l’ampiezza delle spalle, la forma del naso, e, forse, la sua regalità. Ma questo non accade necessariamente. Non tutti i Re sono figli di Re.
Una volta che l’assemblea ha scelto il Re, l’assemblea può solo consigliare, non dare ordini. Se esiste un disaccordo tra l’assemblea e il Re, i desideri del Re prevalgono. Non è tirannia, è il risultato inerente alla scelta corretta del Re. Perché, notate bene, in momenti di crisi e di dubbi, è di importanza vitale che una città parli con una sola voce. E gli Dei non hanno forse indicato quale debba essere quella voce, scegliendo il Re? L’assemblea, nel suo discorso con il Re, accorda quella voce così come l’arpista accorda il suo strumento, ma quando la voce parla, è la voce del Re, vale a dire, è la voce della città, la voce del cielo. E se il Re nel suo discorso non parla con la voce del cielo, tutti se ne accorgono, e il cielo lo scaccia dal trono.
Pensavo a questo argomento, quando gli uomini dell’assemblea mi fecero la loro breve visita rituale nella sala delle udienze del palazzo. Per primi arrivarono i cittadini liberi, che noi chiamiamo «la casa degli uomini». Sono coloro che parlano a nome dei barcaioli, dei pescatori, degli agricoltori, degli allevatori di bestiame, degli scribi, degli orefici, dei carpentieri e degli operai.