Mi sfilarono davanti, posarono i loro doni davanti a me, e mi sfiorarono le caviglie con le mani, secondo la consuetudine. Quando ebbero finito, arrivarono gli anziani dell’assemblea, coloro che rappresentavano i grandi proprietari, le Famiglie Principesche, i Clan Sacerdotali. I loro doni erano più preziosi, il loro esame del nuovo Re più approfondito. Sostenni il loro sguardo con sicurezza e con disinvoltura. Ero consapevole di essere il più giovane tra i presenti, più giovane di tutti gli anziani, più giovane di tutti i membri della Casa degli Uomini. Ma ero il Re.
Avvertivo la forza sacra che è la gloria di un Re, e ne godevo. Ma perfino in quel momento un’ombra nera oscurava la mia gioia, perché ricordavo Lugalbanda disteso sul catafalco di alabastro, e ricordavo il giorno in cui mi trovavo accanto alle mura della città e avevo osservato i cadaveri dei poveri galleggiare sul fiume.
Ero sempre memore del brutto scherzo che gli Dei avevano giocato agli uomini, anche a coloro i quali sono grandi quasi quanto loro: «Non dimenticare mai che sei mortale, non dimenticare mai che hai solo un breve momento di grandezza e che poi verrai trascinato nella Casa della Polvere e delle Tenebre. Questi pensieri raggelavano i miei momenti più caldi. Eppure ero giovane, eppure ero forte. Allontanavo il pensiero della morte da me non appena mi assaliva, e mi dicevo, come avevo fatto quando ero un bambino: Morte, ti sconfiggerò! Morte ti distruggerò!
«Durante tutto il regno di Dumuzi,» disse il grande proprietario Enlil-ennam, «abbiamo aspettato il tuo ritorno. Perché Lugalbanda è dentro di te.»
Lo guardai, stupito. Quel fatto era così noto ad Uruk? Ma poi capii che l’aveva detto solo per modo di dire. Era come se avesse detto, il sangue di Lugalbanda scorre nelle tue vene. E questo tutti lo sapevano.
«È stato un periodo oscuro per noi,» disse Ali-ellati dal capo canuto, la cui nobiltà risaliva fino a novantamila anni prima. «Segni e presagi sono diventati confusi. Gli Dei non davano risposte chiare. I segni premonitori erano sinistri. Vivevamo nella paura e nel brutto presentimento. Era colpa del Re. Si, era colpa del Re.»
«E che tipo di Re era Dumuzi?», chiesi.
«Beh, non era Lugalbanda,» disse Enlil-ennam, sorridendo con affettazione. «Non era Enmerkar.»
«Non era nemmeno Dumuzi,» disse Lu-Meshlam, le cui proprietà erano di per sé stesse un piccolo regno. «È sufficiente essere Dumuzi, se non si può essere Enmerkar. Ma lui non era nemmeno Dumuzi!», e tutti risero a questa battuta.
«Che cosa volete dire?», chiesi.
Un poco alla volta, narrarono la storia di un regno debole e meschino. L’uno iniziava a raccontare, un altro continuava la storia. Un uomo stupido, tronfio: progetti sfortunati, avventure militari finite male, l’ascesa al potere di arricchiti e di nullità, sciocchi litigi con i grandi uomini della città, trascuratezza verso i riti, fondi pubblici sprecati in assurdità mentre le cose necessarie erano abbandonate.
Il triste racconto continuava sempre su questo tono. Una volta che gli argini si erano rotti, la piena delle accuse era senza fine. Mi sentivo in imbarazzo al posto loro, nell’ascoltarli: perché!, chi aveva proposto che Dumuzi salisse al trono, all’epoca della morte di mio padre, se non loro stessi? La vecchia Sacerdotessa Inanna doveva avere una ragione per proporlo e loro per accettarlo, e io credo che la ragione consistette nel fatto che era docile e malleabile, un metallo cedevole. Ma i nove anni del suo regno, a quanto pareva, non avevano portato i vantaggi che essi avevano sperato di ricavarne. Non era una grande sorpresa, dal momento che avevano consapevolmente scelto un uomo debole. Di conseguenza, ora si erano rivolti con avidità, con gioia, con speranza, ad un uomo più forte, nelle cui vene scorreva il sangue della grandezza.
Non riuscivo a trattenere un sentimento di disprezzo per la loro stupidità. Ma li perdonai in fretta. Avevano capito il loro errore, e si erano corretti da soli. Del resto, si erano comportati in accordo al volere degli Dei, quando avevano scelto Dumuzi. L’errore non era stato loro. L’errore era stato degli Dei.»
«Raccontatemi della morte dì Dumuzi,» dissi.
Diventarono evasivi.
«Il cielo gli ha voluto togliere il regno,» disse Lu-Meshlam, e gli altri annuirono prudentemente.
«Capisco,» dissi con impazienza. «Ma com’è morto?»
Si guardarono l’un l’altro. Nessuno voleva parlare. Dovetti costringerli. Una morte lenta e terribile, dissero. Un lento consumarsi, con grande dolore. Gli Dei l’avevano abbandonato, e molti Demoni erano entrati in lui: Ashakku, Namtaru, Utukku, Alu, colui che apporta la febbre, colui che apporta la malattia, lo spirito del male, lo spirito diabolico. Nessuna porta li poteva tenere fuori dal suo corpo. Nessun catenaccio li poteva tenere lontani. Si erano insinuati come serpenti nel corpo di Dumuzi. Si erano infilati come vento attraverso gli spiragli del suo spirito. Gli indovini avevano lottato con forza, ma non c’era modo di curarlo, e nemmeno di capire quale fosse la malattia che lo consumava.
Il vecchio Sacerdote Arad-nanna disse, quando gli anziani ebbero finito il loro terribile racconto: «Il suo errore è stato nella scelta del nome. Una triste sorte incombe sul nome di Dumuzi, come sul primo Dumuzi della storia. Come poteva sperare di sfuggirle, con un nome simile, nella città di tutte le città?»
In quel momento ero assorbito da altri pensieri e credo che non prestai molta attenzione alle parole di Arad-Nanna. Solo in seguito, quando restai solo ad analizzare quella questione, ne compresi il probabile significato. Nella città di tutte le città. La città di Inanna, voleva dire. Chi è il vero sovrano di Uruk, al di sopra dell’assemblea, al di sopra del Re? Ebbene, è la Dea, e nessun altro! Ed è nella natura della Dea distruggere il buon Dumuzi, il Pastore Santo: ci insegnano questa storia fin dall’infanzia.
La Sacerdotessa Inanna non aveva forse ripetuto con il Re Dumuzi, il tradimento che ogni anno la Dea Inanna compie contro il Dio Dumuzi? Tutto gridava si a questa domanda. Mentre ero ancora a Kish, mi aveva inviato quel Sigillo che raffigurava la morte di Dumuzi e il trionfo di Inanna, e io avevo pensato che voleva dire che la Sacerdotessa stava preparando un incantesimo che lo avrebbe ucciso. Ma lei si era accontentata di semplici incantesimi, o aveva usato pozioni reali? Ripensai al racconto delle sofferenze del Re, alle sue febbri, ai suoi dolori, al suo consumarsi. E mi sentii a disagio. Se Inanna poteva uccidere un Re, poteva ucciderne anche un altro, se lo riteneva opportuno. E ad Uruk ogni Re svolge il ruolo di Dumuzi rispetto alla Dea, sia che si chiami Dumuzi, sia che si chiami Lugalbanda, Enmerkar… o Gilgamesh.
Riflettevo: Inanna e Dumuzi, Dumuzi e Inanna. La mia mente tornò, come era accaduto spesso fin dalla mia infanzia, al racconto della sua discesa negli Inferi, quando desiderava ardentemente conquistare altri regni oltre quello che le era stato concesso.
Avere il potere sul cielo e sulla terra non era abbastanza per lei. Doveva possedere anche gli Inferi, il regno della sua sorella più anziana, Ereshkigal. Quindi aveva indossato le vesti scarlatte del potere, la corona, la collana a due fili di lapislazzuli, il pettorale, l’anello, l’asta di pietra per misurare, ed era andata in quel luogo di Uruk dove si trova l’ingresso all’inferno, e aveva cominciato a scendere.
«Se non ritornerò entro tre giorni,» aveva detto alla Dea Ninshubur, suo braccio destro, «va’ dal Padre Enlil, e pregalo di liberarmi.»
Alla prima porta degli Inferi, il guardiano la ferma e le chiede il motivo della sua venuta. La Dea risponde con una bugia, ma il guardiano non si fa ingannare. La Regina Ereshkigal gli ha dato ordini di privare Inanna del suo potere e di umiliarla. Perciò, alla prima porta, il guardiano le toglie la corona della divinità. Alla seconda le chiede la collana di lapislazzuli, e così via ad ognuna delle Sette Porte, finché le vesti scarlatte le vengono tolte, e lei entra nella sala del trono di Ereshkigal nuda, facendo profondi inchini.