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Perché chiunque arrivi al cospetto della Regina degli Inferi deve essere nudo, anche se è la Regina del Cielo. Che umiliazione per l’orgogliosa Inanna! E non le viene nemmeno data la possibilità di assalire il trono di sua sorella: i giudici del regno sotterraneo la circondano subito, pronunciando il loro giudizio, ed Ereshkigal la guarda con l’occhio della morte. Inanna muore. Il suo cadavere, come un pezzo di carne putrida, viene appeso ad un gancio della parete. E vi resta per un giorno, per due, per tre, e sulla terra è inverno, perché Inanna se n’è andata.

Poi Ninshubur si reca dal Padre Enlil e chiede misericordia per la defunta Inanna; ma Enlil non muove un dito per salvarla. E nemmeno lo farà Nanna la luna, a cui Ninshubur si rivolge subito dopo. Ma il saggio e misericordioso Enki, che conosce l’Acqua della Vita, è disposto ad aiutarla. Enki manda due messaggeri negli Inferi, i quali trovano Ereshkigal in preda ai dolori del parto. «Noi possiamo liberarti di questo dolore,» le dicono, ma vogliono un regalo in cambio, e il regalo che chiedono è il corpo di Inanna. Ereshkigal cede. Allora i messaggeri alleviano le sue sofferenze, poi staccano il cadavere di Inanna dalla parete e lo riportano in vita. Ma la Dea non può lasciare gli Inferi, insiste Ereshkigal, a meno che non fornisca qualcuno al suo posto.

Ah, e chi manderà Inanna? Ebbene, chi altri se non Dumuzi, suo marito? Egli siede sul suo splendido trono sotto il grande melo ad Uruk, vestito dei suoi abiti scintillanti e indifferente alle sofferenze di Inanna. Si, Dumuzi sarà la vittima. Dov’è l’amore di Inanna? Ah, non c’è nessun amore! Si tratta della sua vita o di quella di Dumuzi, e lei non esita. Dumuzi non ha mostrato nessun dolore per la sparizione di Inanna; forse si sente liberato dalla tremenda consorte. È condannato. Lei lo guarda con gli occhi della morte, e grida a sette Demoni: «Prendetelo! Portatelo via!»

I Demoni lo prendono per le cosce, rompono il flauto che stava suonando, lo feriscono con le asce cosicché il suo sangue comincia a scorrere. Scappa. Lo inseguono. Supplica gli Dei di risparmiarlo: essi lo aiutano a scappare, ma Inanna è implacabile, e alla fine Dumuzi viene preso, ucciso e portato negli Inferi. È la stagione in cui la grande estate avvolge il Paese, la stagione in cui Dumuzi viene portato via. In estate egli deve morire, ma ritorna in autunno, con le piogge, con l’anno nuovo, per celebrare il Matrimonio Sacro con Inanna e far rinascere tutte le cose. Dov’è la misericordia di Inanna in questo racconto? Non c’è misericordia. Inanna è una forza che non si può contraddire. Dumuzi deve morire: Dumuzi il Re, Dumuzi il Dio.

Meditai con molta attenzione su questo argomento. Inanna mi aveva fatto diventare Re, questo era certo: lei e Agga avevano stretto un ambiguo patto. Lei mi aveva fatto, ma mi poteva anche disfare. Sarei stato in guardia, decisi, avrei impedito che ad Uruk si ripetesse la storia della Dea e del Dio.

Il terzo giorno del mio regno, Inanna mi mandò a chiamare. Quando la Dea chiama, anche il Re deve affrettarsi.

Ci incontrammo in una saletta del Tempio, affatto maestosa, con le pareti dipinte di rosa e qualche sedia sbilenca e traballante che un povero scriba avrebbe giudicato troppo scalcagnata per la sua casa. Indossava un abito semplice e il viso non era dipinto. Due giorni prima era stata una Sacerdotessa e una Dea, terribile nella sua maestà e irresistibile nella sua bellezza. La donna che vidi quel giorno non si era data la pena di assumere l’aspetto di una Dea. La bellezza l’accompagnava in ogni momento, ma la grandiosità non era sempre evidente. Era meglio così: avevo dormito poco nelle mie due notti di regno, e affrontare Inanna nella sua maestà è stancante per tutti, anche per chi è in parte divino.

Volevo sapere da lei la verità a proposito della morte di Dumuzi. Ma come potevo chiederlo apertamente? «È morto per mano tua? Gli hai messo il veleno nel suo bicchiere, Sacerdotessa?» No. No. Avrei dovuto dire: «Sono grato che tu abbia ucciso il mio predecessore affinché io potessi salire sul trono?» No. Oppure, forse: «Sono giovane e inesperto in questi affari di stato. Dimmi, è abitudine della Dea assassinare un Re indegno, quando la città non riesce più a tollerarne l’indegnità?» No. E nemmeno potevo affrontare la vecchia storia del mio esilio forzato. «Dumuzi aveva forse avuto improvvisamente paura di me, perché tu gli avevi detto che lo spirito di Lugalbanda era entrato in me?»

No, non, dissi nessuna di queste cose. E lei, che mi aveva guardato con tanto desiderio negli anni passati, non mi concesse lo scintillio dei suoi occhi, la selvaggia risata di trionfo, il violento abbraccio al quale erano finalizzate tutte le sue macchinazioni. Mi comunicò solo quanto era conveniente si dicessero la Sacerdotessa e il Re durante la prima visita rituale: fredde formalità, stretta osservanza dei riti. Inanna e il Re non possono abbandonarsi alla passione, tranne che durante la notte del Matrimonio Sacro, ma questo capita una sola volta all’anno.

Quindi, con le frasi appropriate, lei si congratulò con me per la mia salita al trono, e mi offrì le sue benedizioni. E io, altrettanto formalmente, mi impegnai a servire la Dea così come si conviene al Re. Bevemmo del vino dolce dalla stessa coppa, e mangiammo la carne arrostita di un bue che era stato sacrificato all’alba. Quando tutto fu compiuto, parlammo come due vecchi amici che non si vedono da molto tempo.

Parlammo del passato, del nostro incontro nel Tempio di Enmerkar, degli avvenimenti della mia infanzia, di quanto ero diventato alto e forte nei quattro anni di esilio, e così via, ma tutto con disinvoltura e freddezza. Lei parlò della morte di alcuni Principi e persone importanti, avvenuta quando io ero lontano. Questo alla fine la portò a discutere della morte di Dumuzi: assunse un’espressione triste, sospirò, poi abbassò lo sguardo, come se il trapasso del Re fosse stato un grande dolore per lei. Le guardai attentamente il volto ma non vidi niente che mi aiutasse a capire.

«Con le mie stesse mani l’ho assistito,» disse Inanna. «Gli ho messo panni freschi sulla fronte. Ho mescolato io stessa i medicamenti, il quunabu e la kushumma, i semi di duashbur, le radici di nigmi e arina. Ma nulla è servito. Giorno dopo giorno, avvizziva e si raggrinziva.»

Quando disse di aver mescolato i medicamenti per Dumuzi, rabbrividii e mi chiesi quali pozioni diaboliche avesse unito a quelle polveri per affrettare la sua discesa negli Inferi. Ma non feci domande. Pensavo di sapere quali verità rispondessero alle mie domande non dette. Ma non le feci.

13

Poi tutto il peso del regno ricadde su di me, ed era un fardello molto più pesante di quanto avessi immaginato. Ciononostante, credo che lo portassi bene.

C’erano i riti da eseguire, le offerte e i sacrifici. Me l’aspettavo. Ma così tanti, così tanti! La Festa dell’Orzo, la Festa delle Gazzelle, la Festa del Sangue dei Leoni, questa e quell’altra festa, un calendario di cerimonie che non risparmiava né il tempo né la forza del Re. Gli Dei sono insaziabili, e devono essere nutriti costantemente.

Ero Re da nemmeno dieci giorni, quando scoprii di essere completamente nauseato dal puzzo della carne arrostita e dall’odore dolciastro del sangue appena versato. Dovete capire che ero ancora un adolescente: sapevo che era mio dovere compiere tutti quei riti, ma avrei preferito di gran lunga far scricchiolare qualche testa nella casa delle lotte, o lanciare giavellotti sul campo di battaglia, invece che passare giorno e notte a versare il sangue degli animali in quelle cerimonie. Ma superavo quella repulsione, ed eseguivo i miei compiti come sapevo di dover fare. Il Re non è solo il condottiero in guerra e il portavoce degli Dei negli affari di stato, ma è anche il più alto degli Alti Sacerdoti, il che comporta un lavoro spaventoso.