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Di conseguenza, la sera predestinata, dovetti uscire sul tetto del Tempio di An durante il primo turno serale di guardia quando appariva la stella di An e presiedere alla tavola d’oro dov’era stato approntato il banchetto per il Padre del Cielo, insieme ai cibi per la moglie di An e per sette stelle erranti. A questi Dei offrii la carne di pecore e di uccelli, la birra migliore, e il vino di datteri contenuto in una brocca d’oro. Feci offerta di ogni tipo di frutto, e sparsi miele e spezie aromatiche sui sette incensieri d’oro. Mi fermai ai quattro angoli dell’altare e li baciai per rinnovare la loro santità.

Bevvi vino, birra, latte e miele, e perfino olio, finché il mio stomaco ne fu gonfio. In alcuni riti dovevo bere da brocche piene di sangue, cosa che non sarei mai riuscito a fare con piacere. In alcune occasioni indossavo pesanti vesti, mentre in altre ero completamente nudo. Non passava mai una notte senza che non ci fosse qualche rito da compiere, e spesso ce n’erano anche di giorno. Gli Dei devono essere nutriti: cominciai a sentirmi un cuoco e un cameriere.

E a volte anche un macellaio. Per una cerimonia mi portarono un bue sacrificale troppo grasso per stare in piedi: sembrava un enorme otre pieno di grasso. Mi guardava con grandi occhi marroni e tristi, come se sapesse che io rappresentavo la sua morte, ma era troppo placido per protestare. Gli alzarono la testa e mi misero un coltello in mano. «Gli Dei ti hanno creato per questo momento,» dissi all’animale. «Ora ti restituisco a loro.» Gli tagliai la gola con un solo colpo. Il bue, tra affanni e sospiri, cadde sulle zampe posteriori, ma ci mise molto tempo a morire. Mi sembrò di sentirlo piangere. Lasciai che il suo sangue tiepido zampillasse sulla mia pelle nuda finché non ne fui bagnato dalla testa ai piedi. Questo significava essere Re ad Uruk.

Mi erano imposte costrizioni e restrizioni. In un certo giorno del mese non potevo mangiare carne di bue, in un altro non potevo mangiare quella di porco, e in un altro mi era proibito mangiare qualsiasi tipo di carne. In un certo giorno era pericoloso per me mangiare aglio, in un altro giorno mi veniva richiesto per il bene comune di astenermi dai rapporti con donne, in un altro non dovevo uscire dalle pietre di confine che limitavano i campi perché non dovevo vedere il fiume, e così via. Molte di queste regole mi sembravano assurde, ma le osservavo tutte. Alcune di loro le osservo ancora. Altre le ho abbandonate con il passare degli anni, e non ho mai visto nessuna disgrazia abbattersi su di me o su Uruk per la mia inadempienza.

Questi obblighi e questi doveri regali divennero meno opprimenti quando mi abituai ad essi. Ogni tanto mi scoprivo ad avere nostalgia per la vita più libera e più sana che avevo condotto quando ero un guerriero di Kish. Ma tali sensazioni passarono in fretta, come gli uccelli dell’inverno che saettano argentei nel cielo azzurro. Facevo quello che mi era richiesto, e lo facevo senza lagnarmi. Un Re che si lagna dei propri compiti non è un Re, ma solo un impostore.

C’era un unico rito che, non solo avrei compiuto senza lagnarmi, ma che anzi ero ansioso di compiere. Però avevo cominciato a regnare all’inizio dell’estate, e per quel rito dovevo aspettare l’anno nuovo. Mi riferisco al Matrimonio Sacro, quando Inanna avrebbe finalmente giaciuto tra le mie braccia.

Finalmente il caldo si placò e un dolce venticello cominciò a soffiare dal sud. L’odore del mare caldo è portato proprio da quel vento; trascorrevo molto tempo sulla terrazza del palazzo, da solo, a respirare profondamente per riempirmi i polmoni di quell’odore. È l’araldo, pensavo: la stagione cambierà, le piogge torneranno, e arriverà il tempo di dissodare la terra e seminare. Ma, prima che fossero arati i campi, doveva essere arata la Dea. Tremavo per l’ansia e il desiderio.

Una mattina, il ciambellano incaricato di queste faccende mi disse che dovevo smettere di giacere con le concubine del palazzo, perché il giorno della cerimonia era prossimo. Erano arrivati i giorni della purificazione, quando il seme del Re deve essere dedicato solo ad Inanna. Risi, e dissi che avrei fatto volentieri quel sacrificio, sebbene dopo qualche giorno cambiassi idea a questo proposito.

Ho sempre sentito il flusso del desiderio così come la spiaggia sente il flusso del mare, vale a dire, qualcosa che arriva costantemente, con insistenza, senza sosta. Nulla può fermare il flusso del mare, e quando cercavo di fermare quell’altro flusso che era dentro di me, scoprivo che era difficile come impedire alle onde di frangersi contro gli scogli. Non ero stato senza una donna per più di mezza giornata da quando ero diventato uomo. Ma in quell’occasione decisi di infliggermi un’astinenza dei sensi che mi disseccava il sangue.

Fu un periodo difficile per me. Resistetti, ma solo perché sapevo che la mia ricompensa sarebbe stata Inanna: la Dea sarebbe venuta da me come le piogge invernali arrivano dopo l’infernale estate.

Tutte le normali faccende della città si fermarono. Cominciarono i preparativi della cerimonia, la riparazione e la pulizia degli edifici, i sacrifici, le fumigazioni, le sfilate. Gli esorcisti furono impegnati in ogni angolo di Uruk a scacciare i Demoni oltre le mura. I Sacerdoti marciarono sui campi secchi e li spruzzarono con l’acqua santa contenuta nelle brocche d’oro. Coloro che appartenevano alle caste impure si trasferirono nei villaggi al di fuori della città, e a qualsiasi straniero residente ad Uruk veniva ordinato di partire.

Io ero segregato nel palazzo a prepararmi, a lavarmi, a non mangiare carne e a non toccare le donne. Tutto il giorno respiravo i fumi del sacro incenso regale che bruciava in bracieri dai lunghi piedi. Dormivo poco, e passavo le notti a pregare e cantare inni sacri. Gli Dei andavano e venivano dalla mia camera da letto, erano grandi ombre che restavano per qualche tempo al mio fianco.

Una notte avvertii la presenza di Enlil, un’altra mi svegliai da un sonno leggero per vedere la figura incappucciata di Enki, i cui occhi bruciavano come braci rosse. Le visite degli Dei mi agghiacciavano per la paura. Nessuno, nemmeno un Re, si sente a proprio agio davanti a simili presenze. Se allora ci fosse stato un buon amico al mio fianco, sarebbe stato meno difficile per me affrontare quegli spiriti, ma a quell’epoca ero solo.

Camminavano nella mia stanza e passavano attraverso il mio corpo come se io non esistessi, e ogni volta sentivo soffiare dentro di me il tetro vento grigio degli Inferi. In quella stagione dell’anno, quando la siccità letale dell’estate tiene ancora avvinto il Paese, gli Inferi sono molto vicini: le loro bocche si spalancano dietro la porta che si apre su Uruk.

Gungunum, l’Alto Sacerdote di An, venne da me la mattina del terzo giorno. I miei servi mi vestirono dei miei abiti regali più splendidi, e io mi recai con lui nella cappella del palazzo. Lì mi inginocchiai davanti al Padre del Cielo. Poi Gungunum mi tolse tutti gli ornamenti del mio rango, mi schiaffeggiò il viso, mi tirò le orecchie, mi umiliò in ogni modo davanti al Dio e mi fece giurare che non avevo nessun pensiero malvagio nei confronti degli Dei. Quando il rito fu terminato, mi alzò da terra, mi rivestì con le sue mani, e mi restituì il regno.

Dopodiché mi porse una coppa che conteneva teneri frammenti di cuore di palma, i germogli del dattero. Noi riteniamo sacro quest’albero, perché ha tanti usi quanti sono i giorni dell’anno: ci fornisce cibo e bevande, fibre per le corde e per le reti, legno per i mobili, e tante altre cose. È un albero divino. Presi la coppa dalle mani del Sacerdote, mangiai i frammenti di cuori di palma, e Dumuzi entrò immediatamente dentro di me.

Mi riferisco al Dio Dumuzi, naturalmente, e non a quel Re stupido e frivolo che aveva assunto il nome di Dio. Il cuore di palma è il potere dell’albero di produrre nuovi frutti e, quando lo mangiai, quel potere, che è Dumuzi stesso, passò in me.

Tutta la fertilità era ora incarnata in me. Io ero la pioggia, ero la linfa che sale, ero il fiore, ero il seme. Ero la forza che produce i datteri e l’orzo, il grano e i fichi. Da me sarebbero nati i fiumi. Da me sarebbero fluiti il vino e la birra, il latte e la panna. Il Dio pulsava dentro di me, e io ribollivo della nuova vita del nuovo anno. Quando abbassai gli occhi sul mio corpo nudo, vidi il rigido scettro della mia virilità tendersi dal mio corpo come un terzo braccio, e pulsare di vita.