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Lasciamo che quelle parole restino un mistero. Il mistero maggiore che compimmo quella notte, lo potete immaginare. Conoscete i riti delle labbra e dei capezzoli, delle natiche e delle mani, delle bocche e dei ventri, che la coppia sacra deve compiere. La sua pelle era calda, bruciante come il ghiaccio delle montagne del nord. I suoi capezzoli erano duri come l’alabastro sotto le mie dita. Facemmo tutto quello che si doveva fare, prima dell’atto finale, e quando arrivò il momento per compierlo, lo capimmo senza bisogno di parole.

Entrare in lei era come scivolare nel miele. Quando ci unimmo, lei rise, e io sentii che era il riso della ragazza del corridoio più che il riso della Dea. Anch’io risi, per aver finalmente soddisfatto il mio desiderio dopo un’attesa così lunga. Poi le nostre risate si persero in suoni più profondi, più forti. Ci muovevamo insieme, lei mormorava strane parole che io non conoscevo, la lingua delle donne, la lingua della Dea, delle Usanze Antiche. I suoi occhi si rovesciarono all’indietro, tanto che io ne vidi solo il bianco. Poi i miei occhi si chiusero, e io la strinsi forte con entrambe le braccia. Il potere del Dio, che fluiva da me come fuoco liquido, si unì al potere della Dea.

Quando il mio seme si versò, il nuovo anno nacque. Un grido di gioia esplose dalle mie labbra e dalle sue, e udimmo in risposta le melodie dei musici, che aspettavano fuori dalla camera da letto. Fu allora che ci parlammo, prima con gli occhi e con i sorrisi, poi con le parole. Dopo poco ricominciammo il rito, e poi ancora, e ancora e ancora, finché l’alba non ci portò la benedizione del nuovo anno, e noi uscimmo silenziosamente dal Tempio per stare nudi sotto la lieve pioggia che il nostro accoppiamento aveva evocato nel Paese.

14

Così trascorse la notte del Sacro Matrimonio, durante la quale io e Inanna finalmente ci unimmo. Ma era la Dea e il Dio che si erano sposati, non la Sacerdotessa e il Re e, una volta che la cerimonia fu finita, ritornammo ciascuno alla propria vita, lei nell’isolamento del Tempio, io tra le mie concubine nel palazzo.

Non la vidi per qualche settimana. Quando avvenne, al rito della semina del grano, lei mi trattò in modo freddo e formale. Era corretto e opportuno: ma lo detestavo. Avevo ancora il suo sapore sulla lingua. Ma sapevo che non l’avrei abbracciata la seconda volta finché non fosse tornata la stagione dell’anno nuovo, dopo dodici mesi: saperlo mi faceva male.

I doveri dei riti e delle responsabilità ci tenevano in contatto costante, però. Ad Uruk il Re è il braccio destro della Dea, e la sua spada; e lei è il bastone santo a cui il Re si appoggia. Senza la Dea, non ci sarebbe il Re; senza il Re, la Dea non potrebbe toccare l’anima del popolo. Perciò il Re e la Dea sono sempre congiunti: sono i centri gemelli della città, l’uno gira intorno all’altro e tutto il resto gira intorno ad entrambi.

La lieve pioggia di Tashritu cedette il posto, all’inizio del mese di Arahsamna, a piogge che non erano affatto lievi: acquazzoni torrenziali che arrivavano violenti dal nord, quasi ogni giorno. Il suolo asciutto dapprima bevve con avidità: ben presto la sua sete fu soddisfatta, ma le tempeste continuavano ad assalire il Paese.

A quell’epoca cominciai ad interessarmi attentamente alle condizioni dei canali. Non erano stati riparati sufficientemente durante l’ultimo anno del regno di Dumuzi. Se le piogge avessero continuato con la stessa intensità e i canali non fossero stati ripuliti dei sedimenti, con tutta probabilità all’inizio della primavera avremmo subito un allagamento.

Ero entrato nel vivo di questo problema e ne discutevo con il mio ciambellano dell’acqua, con gli ispettori dei canali e con tre o quattro alti funzionari, quando il viceré del palazzo entrò nella sala reale. Un Sacerdote del Tempio di Enmerkar, disse, era venuto con un messaggio di Inanna. La Sacerdotessa aveva urgente bisogno di me. A quanto sembrava, un Demone si era stabilito nel suo albero di huluppu, e io dovevo scacciarlo.

Ero concentrato sulle necessità dei canali, e non feci nessun tentativo, credo, di mascherare la mia impazienza. Guardai con stupore il viceré e gli dissi bruscamente: «Non può trovare un altro esorcista?»

Gli alti funzionari, seduti al tavolo con me, mormorarono. Sentii il loro tono di disapprovazione, e sulle prime pensai che erano stati disturbati come me dall’interruzione del nostro lavoro. Ma no, li aveva turbati il mio sgarbato rifiuto, e non la inopportuna richiesta di Inanna. Mi guardarono imbarazzati. Per un attimo nessuno parlò.

Poi l’ispettore dei canali mormorò, senza guardarmi: «È competenza del Re eseguire compiti simili, mio Signore, quando gli vengono richiesti.»

Il sudore improvviso gli fece luccicare la faccia.

Allargai le braccia.

«Abbiamo un lavoro importante…»

«Gli inviti di Inanna non si possono ignorare, Maestà,» disse piano il viceré, sfiorandosi la fronte con il massimo riguardo.

«I canali…», dissi io.

«La Dea,» disse il ciambellano dell’acqua.

«La pensate tutti nello stesso modo?», chiesi, e li guardai uno per uno.

Questa volta non parlò nessuno. Ma la loro insistenza era inequivocabile. Io cedetti, e cedetti con un sorriso. Non conosco nessun altro modo di cedere, se non con un sorriso. Che cosa avrei potuto fare? Non c’era nient’altro da fare: occupato com’ero, dovevo andare subito al Tempio, e liberare dal Demone l’albero di Inanna.

Quell’albero di huluppu era, e ancora è, un albero grande e alto dai graziosi rami penduli, che era stato piantato cinquemila anni prima dalla Dea nel giardino del Tempio. Il terreno dove esso cresce è così santo che un pizzico della terra nera intorno alle sue radici è sufficiente a curare molte malattie dello spirito. In primavera le donne sterili vanno ad abbracciare il suo tronco, e molte sono rese fertili dalle gocce di linfa. Con le sue foglie si prepara un decotto che viene usato talvolta per divinare il futuro. È un albero nobile e sacro, e non avrei mai permesso che fosse danneggiato. Ma pensavo che Inanna avrebbe potuto occuparsi lei stessa dell’albero, e lasciare me libero di occuparmi dei canali.

Durante il secondo turno di guardia del mattino — la pioggia si era interrotta per qualche ora, il cielo era sereno e chiaro, l’aria aveva la fragranza pura dell’inizio dell’inverno — mi recai al giardino del Tempio in compagnia di un gruppo degli uomini più giovani del palazzo. L’albero di huluppu, enorme e alto, si ergeva nell’angolo nord-orientale del recinto, ed era visibile da lontano. Una decina di Sacerdotesse piangenti gli stavano accanto, e una decina di vecchie della città gli giravano lentamente intorno, salmodiando un canto monotono.

Non c’era bisogno di essere giardinieri esperti per capire che l’albero aveva qualcosa che non andava. La pioggia gli aveva fatto cadere quasi tutte le foglie, lunghe e strette, che erano ammucchiate in un enorme cumulo. Quelle che non erano ancora cadute erano avvizzite e ingiallite, e i rami sembravano flosci e molli. Mi avvicinai all’albero e poggiai le mani sulla corteccia spessa e grinzosa, come se tentassi di sentire il demone che vi si era stabilito all’interno. Ma sentii solo la corteccia spessa e grinzosa.

Avevo portato con me un certo Lugal-amarku, un ometto con la gobba e con le sopracciglia nere che si incontravano sulla fronte. Egli conosceva incantesimi ed esorcismi. Poggiò le mani sull’albero come me e li ritrasse come se si fosse scottato.