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«Ebbene?», dissi. «Che cosa hai scoperto?»

«Non un Demone, mio Signore, Tre!»

«Ah,» dissi. «Tre: è così?»

Era una seccatura. Pensai ai sedimenti che ostruivano i canali, e alla pioggia che sarebbe tornata certamente nel giro di qualche giorno. Tre Demoni, allora? Tre?

Alle mie spalle sentii sussurrare le Sacerdotesse e le vecchie. Mi girai, e vidi Inanna incedere verso di me, incurante del fango che le macchiava la tunica bianca ad ogni passo. Era solo la seconda volta che la rivedevo dall’alba seguente al Matrimonio Sacro. All’improvviso, mi tornò alla mente il ricordo di quella notte. Inanna davanti a me, con il viso caldo e arrossato, e il petto che le si sollevava. Ma il ricordo scomparve: bruscamente mi indirizzò il gesto che l’Alta Sacerdotessa deve fare quando saluta il Re, e io la ricambiai con il Segno della Dea.

«Devi salvare l’albero,» mi disse subito.

«Ospita tre Demoni, mi è stato detto.»

«Ah, anche tu li hai visti?»

Feci un cenno verso Lugal-amarku.

«Non li ho visti io: è stato lui.»

Il gobbo disse, girando i palmi verso l’alto, in segno di modestia: «È evidente, mia Signora.»

«Va bene,» disse la Sacerdotessa e si avvicinò all’albero. Mi lanciò un’occhiata. «Ecco: guarda. Il serpente che non conosce magie vi ha preso dimora. E, sulla cima dell’albero, l’uccello-Imdugud ha costruito il nido, e alleva i suoi piccoli. E qui, nel tronco, abita la vampira Lilitu, la vergine della desolazione, la mangiatrice d’anime.»

Spalancai gli occhi. Le parole di Inanna mi colpirono come i rintocchi di campane di piombo. Questo significava essere Re di Uruk? Ogni mattina dovevo portare a termine un compito impossibile, e tre in giorni particolari? Il serpente che non conosce magie? L’uccello-Imdugud? La vampira Lilitu?

C’era veramente un buco nel terreno, alla base dell’albero, che si apriva tra due delle enormi radici intricate. Cercai di guardare dentro il buco, ma non vidi niente. E non vidi né il nido sulla cima né la tana del Demone nel centro del tronco. Spostai lo sguardo da Inanna a Lugal-amarku, e poi ritornai a guardare Inanna. Tre Demoni, e il mio compito era scacciarli! Se solo avessi potuto rimpicciolirmi, scappare, e ritornare al mio palazzo a sbrogliare problemi che si potevano vedere e sentire! Ma non potevo. Dovevo obbedire al volere di Inanna, altrimenti tutta Uruk avrebbe saputo nel giro di un’ora che Gilgamesh si era sottratto ai propri doveri e che aveva paura del mondo invisibile. Provai una disperazione indescrivibile, mentre pensavo, ah, i miei canali, i miei canali, i miei canali!

Poi dissi: «Ci occuperemo di questa faccenda, e in fretta.»

Diedi ordine a Lugal-amarku di preparare una pozione così fetida, così maleodorante, che nessuna creatura avrebbe potuto resistervi, nemmeno il serpente che non conosce magie. «Portala qui entro un’ora,» gli ordinai. Mandai uno degli uomini del mio gruppo — era Bir-hurturre, il mio vecchio compagno di scuola ora mio consigliere di fiducia — al palazzo a prendere la mia enorme ascia. E chiesi alla Sacerdotessa di procurarmi una lunga fune, spessa e robusta, al Tempio di Enmerkar: ci saremmo occupati di quei Demoni immediatamente. Già all’inizio del mio regno ero giunto ad una conclusione fondamentale sull’arte di governare: si deve compiere tutto con decisione e chiara determinazione.

Il gobbo tornò, non dopo un’ora, ma in metà del tempo. Aveva con sé un lungo cilindro di bronzo colmo di una sostanza gialla e ribollente, macchiettata di rosso e di verde. Era una sostanza così puzzolente e pestilenziale che fui sorpreso che non avesse corroso il bronzo. Il vecchio sembrava orgoglioso di sé. Gli detti una pacca sulla gobba, strofinando la mano per avere fortuna, e gridai: «Questa pozione ce la farà, Enlil! Non c’è niente di meglio per questo lavoro!»

Nauseato e soffocato dal tanfo, presi il cilindro dalle mani del vecchio e lo svuotai nel buco che era alla base dell’albero. La terra sibilò quando quella sostanza la toccò. Sono pronto a giurare che i margini del buco si ritrassero come se fossero disgustati. Aspettammo. Il serpente che non conosce magie non obbedisce né a Enlil né ad Inanna, la signora di tutti i serpenti. Ma, dopo qualche attimo, la terra si mosse, e un paio di occhi gialli e irati lampeggiarono nel buco, e una lingua nera e biforcuta balenò.

«Dammi l’ascia,» dissi con calma a Bir-hurturre.

Lentamente, il serpente strisciò fuori dalla tana. Aveva la pelle nera come la notte, con strisce gialle, e un corpo flessibile, dello spessore del mio braccio. Alle mie spalle, la Sacerdotessa continuava a cantare nomi santi, e perfino i miei uomini sussurravano incantesimi per difendersi. Eppure io non avevo paura del serpente, forse perché sembrava così disperato, così disgustato e inzaccherato dal terribile liquido di Lugal-amarku.

Di solito non uccido un nemico che si trovi in una simile posizione di svantaggio, ma quello non era il momento di essere gentili. Alzai l’ascia e, con un solo rapido movimento, tagliai il serpente in due. Le due metà separate si contorsero e saltarono convulsamente. Dalla bocca del serpente uscì un violento ruggito, credo che volesse colpirmi con il veleno, ma non ne fui toccato. Sentii sospirare e pregare alle mie spalle.

Qualche momento dopo il serpente era immobile.

«Uno,» dissi.

Poi presi la spessa fune del Tempio, la legai intorno al tronco dell’albero, e me la feci passare dietro la schiena, in modo da issarmi e camminare, più o meno, lungo il tronco, nel momento in cui mettevo i piedi contro l’albero. In questo modo mi arrampicai con facilità. La corteccia era dura e increspata, ed effondeva, a mano a mano che la graffiavo con i piedi, una fragranza di fiori di mandorlo, o di vino forte.

Ben presto raggiunsi la metà del tronco, dove mi avevano detto che si era stabilita la Diavolessa Lilitu, quell’oscura vergine che dimora nelle rovine e assale i viandanti. Credo che, se mi fossi fermato a pensare, avrei avuto paura. Ma ci sono delle occasioni in cui è pericoloso fermarsi a pensare.

Presi le due cime della fune in una mano e colpii con l’altra il tronco. «Lilitu? Lilitu? Mi senti? Io sono Gilgamesh il Re di Uruk.» Risi, per mostrarle che non avevo paura di lei. «Sentimi, Lilitu! Ti proibisco di vivere in quest’albero, che è di Inanna! Te lo proibisco! Vattene!» Avrebbe obbedito? Credevo di si. Il nome di Inanna ha un grande potere su quelle creature. Colpii altre due volte il tronco, ma non aspettai la risposta, e continuai ad arrampicarmi più in alto.

«Due,» dissi.

Sulla cima dell’albero, così aveva detto Inanna, l’uccello-Imdugud aveva sistemato il nido con i suoi piccoli. Scrutai attraverso i fitti rami e non lo vidi, m mi sembrò di sentirne la presenza. Mi issai, senza più arrampicarmi lungo il tronco, ma passando con le mani da un ramo all’altro.

«Imdugud?», dissi piano. «Imdugud, sono io, Gilgamesh, figlio di Lugalbanda.»

È il più spaventoso degli uccelli, l’uccello della tempesta, il portatore del tuono e della pioggia. Ha il corpo di un’aquila e la testa di un leone. È l’uccello del destino, quello che decide il fato e pronuncia le parole che nessuno può trasgredire. Non è legato a nessuna città, a nessun Dio, ma va dovunque vuole, solo, indipendente. Eppure non avevo ragioni di temerlo.

Mio padre ne parlava spesso, e con affetto. Quando era giovane, all’epoca di Enmerkar, si era recato, dietro ordine di Enmerkar, in molti regni lontani, e i suoi vagabondaggi lo avevano infine portato nella terra di Zabu, alla fine del mondo. Quando cercò di tornare ad Uruk, scoprì che non poteva, perché da quel viaggio non c’è ritorno. Ma non si perse d’animo. Scoprì in quella terra il nido dell’uccello-Imdugud. Un giorno in cui l’Imdugud era fuori, Lugalbanda entrò nel suo nido, offrì miele, pane e grasso di pecora ai suoi piccoli, dipinse i loro volti con i colori d’onore, e posò delle corone sulle loro teste. L’Imdugud, quando tornò, fu molto felice di quello che aveva fatto Lugalbanda, e gli concesse il suo favore e la sua amicizia, offrendogli qualsiasi ricompensa desiderasse.