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Da allora è toccato a noi mantenere ed estendere i canali: è il nostro lavoro principale, il grande compito che è alla base di tutti gli altri, perché tutta la nostra prosperità dipende dai canali. Nei periodi di piena dei fiumi, ci permettono di deviare le acque pericolose nei canali di riserva. Quando i fiumi cominciano a calare, chiudiamo le chiuse, e tratteniamo l’acqua per usarla nei mesi secchi. Altri canali portano l’acqua dai bacini nei campi coltivati, e perfino nelle terre che un tempo erano deserto.

Così i fiumi, che una volta erano i nostri grandi nemici, ora sono i nostri servi. Controllandone il livello e il flusso, salviamo i nostri campi della minaccia dell’allagamento e della siccità. Banchine e moli si alzano ora lungo le spiagge delle nostre città, dove un tempo avevamo solo paludi fangose. Su tutto il paese si stende la rete dei canali, che congiunge i campi, i villaggi e le città.

Ma la terra del nostro paese è profonda e soffice, e viene facilmente portata via dalla forza delle correnti in primavera, cosicché i canali si riempiono e i sedimenti ostruiscono gli sbocchi. Non possiamo permettere che questo accada. Se i canali diventano poco profondi, l’acqua non scorre dall’uno all’altro: ben presto non scorre più nulla, e allora, quando i fiumi sono in piena, il disastro colpisce le nostre terre, come se il drago Kur fosse tornato.

È per questo che dobbiamo lavorare costantemente al mantenimento dei canali. È responsabilità di ogni agricoltore badare al proprio piccolo canale, ed è responsabilità del supervisore di ogni villaggio che i serbatoi più grandi siano in ordine, ed è responsabilità dei funzionari del governo sorvegliare i canali principali. Ma la responsabilità finale ricade sul Re; egli deve comprendere l’estesa rete di canali, sapere in che punto si è indebolita, e dare ordine di inviare gli operai per le riparazioni. Dumuzi aveva trascurato questa responsabilità. Solo per questo, non potrà mai essere perdonato, e solo per questo, ha meritato di finire nella Casa della Polvere e delle Tenebre.

Avevo ben poco da fare durante il periodo peggiore della stagione delle piogge, oltre che analizzare le relazioni dei supervisori, e decidere dove fosse più essenziale cominciare ad eseguire le riparazioni. Ben presto fui circondato da mucchi di tavolette, raccolte in parecchi cesti, su cui si trovava Uruk. Scribi erano alla mia destra e alla mia sinistra per leggermele, ma io chiedevo raramente il loro aiuto: mi sembrava più opportuno leggerle da solo, finché ne avevo la possibilità. Riuscivo a capire meglio che cosa si dovesse fare.

A metà dell’inverno le piogge si attenuarono, e noi cominciammo ad eseguire il nostro compito. I fiumi e i canali avevano raggiunto un livello molto alto a causa dei costanti acquazzoni, ma non c’era ancora pericolo. Il vero pericolo non sarebbe arrivato finché le nevi del nord non avessero cominciato a sciogliersi, ma non c’era tempo da perdere.

Scelsi di cominciare dal canale noto con il nome di Bocca di Ninmah, che si trova a nord di Uruk e ci fornisce l’acqua potabile. Aveva un urgente bisogno di essere dragato e ripulito, ma non era un problema grave, perché richiedeva solo sudore e sforzo muscolare. Ma anche gli argini e le chiuse avevano bisogno di essere ricostruite, soprattutto la diga principale, che secondo i miei ingegneri sarebbe stata spazzata via dal primo urto delle acque del disgelo.

È un’antica abitudine, quando si inizia un grande lavoro di costruzione, che il Re prepari e ponga il primo mattone. Non saprei dire se questa abitudine sia stata seguita da tutti i Re, ma io fui lieto di onorarla, visto che era sempre stato un mio grande divertimento lavorare come gli artigiani.

I miei astronomi scelsero un giorno propizio per la cerimonia. La notte prima, mi legai i capelli sulla nuca e, indossata una semplice tunica, mi recai nel piccolo Tempio di Enlil, dove mi lavai e trascorsi la notte da solo, dormendo sul pavimento di pietra nera. La mattina, il sole splendeva vivido. Mi recai al Tempio di An e offrii al Dio bestiame e capre privi di imperfezioni. Poi, davanti al santuario di Lugalbanda, esegui il gesto rituale di portare una mano alla faccia, e sentii muoversi dentro di me il Dio mio padre. Quando poi arrivò il mezzogiorno, andai nel luogo dove si fabbricano i mattoni, portando un cesto sulla testa in cui c’erano gli attrezzi dei costruttori.

I Sacerdoti dei numerosi Dei-Artigiani battevano i loro tamburi mentre io cominciavo il mio lavoro, lavorando seminudo sotto il sole, come uno qualsiasi degli operai. Prima di tutto, feci una libazione, versando l’acqua della buona sorte nello stampo. Poi accesi un fuoco di legno aromatico, per scacciare le impurità e gli spiriti malvagi che potevano stare in agguato. Spalmai lo stampo di miele, burro e olio della migliore qualità. Quindi presi l’argilla e l’inumidii finché non fu ammorbidita, aggiunsi la paglia, poi calpestai il miscuglio. Presi il vassoio santo, raccolsi l’argilla e la pressai nello scampo. Lisciai con le mie mani la superficie dei mattoni, e li misi ad asciugare nell’essiccatoio. Non piovve quella notte; penso che avrei fatto scorticare vivi gli astronomi se avesse piovuto. Il giorno dopo, compimmo la cerimonia della rottura dello stampo. Diedi fuoco ad un legno ancora più aromatico, presi lo stampo per le maniglie, lo sollevai, e presi il primo mattone. Lo alzai verso il cielo, come una corona.

«Enlil è soddisfatto,» gridai.

E avrebbe dovuto essere veramente soddisfatto. Il mattone era perfetto. Gli Dei avevano accettato il mio lavoro, e questo significava che il periodo delle difficoltà era passato e Uruk sarebbe sopravvissuta.

Per giorni e giorni lavorai insieme agli altri a fabbricare i mattoni, a trasportarli fino al canale, e ad accatastarli in grandi file. Poi, quando gli astronomi annunciarono di nuovo un giorno propizio, eseguimmo il lavoro di chiudere l’afflusso di acqua del canale. Non fu facile: due uomini persero la vita per farlo. Ma ci riuscimmo.

In quei giorni, non conoscevo moderazione, né per me né per coloro che mi erano vicini. Bisognava portare a termine quel lavoro per la nostra città. In pieno inverno, restai per un’ora immerso nella parte più profonda, con le braccia tese, mentre gli uomini costruivano la struttura della diga tutt’intorno a me. Era necessario che lo facessi io, non tanto perché ero il Re, ma perché ero l’uomo più alto e più forte.

Quando terminammo la chiusura dell’afflusso di acqua, aprimmo le chiuse successive, prosciugammo il canale, e demmo inizio al lavoro di ripararne il rivestimento. Posi il primo mattone, che era il mattone che avevo fabbricato con le mie mani durante l’altra cerimonia. Lavorammo fino all’imbrunire e all’alba tornammo, e così fu un giorno dopo l’altro: non li avrei fatti riposare, perché il tempo era poco e il compito era urgente.

Io non ero mai stanco. Quando gli altri erano spossati, andavo tra loro, poggiavo il mio braccio sulle loro spalle e dicevo: «Su, compagno, alzati, gli Dei richiedono il tuo servizio!» E, pur spossati com’erano, si alzavano e riprendevano a lavorare. Li costringevo ad un lavoro pesante, ad un lavoro senza sosta, ma costringevo me ad un lavoro ancora più pesante. Grandi pire di legno aromatico purificavano il luogo del nostro lavoro, Enlil ne era soddisfatto, e noi lavoravamo in fretta e bene. Tutto andò bene ad Uruk quell’inverno. Quando in primavera arrivarono le piene, i canali contennero e conservarono le acque, e non ci furono allagamenti. Ero felice del mio regno.