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Poi, il primo giorno dell’estate, arrivarono dei messaggeri di Agga di Kish, e chiesero che io pagassi il mio tributo al loro Re.
Erano in tre, funzionari della Corte, uomini che avevo conosciuto durante il mio soggiorno a Kish. Quando arrivarono, non capii che erano venuti da nemici. Li ricevetti con cordialità e offrii un grande banchetto in loro onore. Restammo svegli fino a notte fonda, a parlare dei tempi passati, dei banchetti nel palazzo di Agga, delle guerre contro gli Elamiti, e delle vicende delle persone che avevo conosciuto a Kish.
Aprii le botti di vino di Enki per loro, e uccisi tre buoi dei campi di Enlil. «Ditemi,» dissi, «come sta Agga, mio padre, il mio benefattore?» E loro mi risposero che Agga stava bene, che il suo amore per me era grande, e che quando parlava con gli Dei, non dimenticava mai di chiedere loro di provvedere al mio costante benessere.
Diedi ad ognuno degli ambasciatori una concubina di suo gusto, e li mandai a dormire nelle camere più belle del palazzo. Il giorno dopo mi dissero che avevano portato con loro un messaggio di Agga. Mi misero davanti una tavoletta di grandi dimensioni, sigillata in un involucro di costosa argilla bianca su cui era inciso il Sigillo Reale di Kish. Quando posero la tavoletta davanti a me, i loro occhi guizzavano; avrei dovuto capire che cosa significava.
«Chiediamo il permesso di ritirarci,» dissero, e io li feci allontanare.
Quando se ne furono andati, ruppi l’involucro di argilla bianca, ne estrassi la tavoletta, e cominciai a leggerla. E i miei occhi si spalancavano sempre di più ad ogni riga che leggevano.
Cominciava in maniera consueta, con le formule solite.
Agga, figlio di Enmebaraggesi, Re di Kish, Re dei Re, Signore del Paese per merito di Enlil e An, al suo adorato figlio Gilgamesh, figlio dì Lugalbanda, Signore di Kullab, Signore di Eanna, Re di Uruk per merito di Inanna, e così via; seguivano pie espressioni di augurio per la mia salute e prosperità. Poi lessi espressioni di rammarico per non aver ricevuto più notizie del suo adorato figlio Gilgamesh, e del regno che Agga aveva affidato al suo adorato figlio. A questo punto avvertii il primo accenno di minaccia incombente. Agga mi rammentava di avermi aiutato a diventare Re di Uruk: era vero, si, ma forse era poco opportuno da parte sua richiamare l’attenzione su quel punto. Non è che mi avesse sollevato da una umile condizione per darmi la corona: io ero il figlio di un Re, e l’Eletto della Dea.
Ma presto capii a che cosa mirasse. Era già sottinteso nella sua formula di saluto: «Re dei Re, Signore del Paese». Era l’antico titolo del Re di Kish, che nessuno si era mai dato la pena di mettere in dubbio. Ma l’uso che ne faceva Agga sembrava chiaramente intendere che mi considerava un suo vassallo. E, in realtà, gli avevo giurato fedeltà, quando ero arrivato nella sua città. Continuai a leggere, avvertendo un disagio I crescente.
Poi cominciavano le richieste di tributo.
Non lo chiamava affatto tributo. Ne parlava come di un «regalo», di un’«offerta», di una «donazione del mio adorato figlio». Ma era ugualmente un tributo. Tante pecore, tante capre, tante giare di olio, tanti vasi di miele, tanti gur di vino di datteri, tanti mana d’argento, tanti gu di lana, tanti gin di Uno, tanti schiavi, tante schiave, di tale e tale età. La richiesta era posta in termini miti e piacevoli, senza nessun accenno ad un ultimatum. Sembrava sottintendere che non gli era necessario usare un linguaggio minaccioso, dal momento che quei regali e quelle donazioni gli erano dovuti, erano dovuti dal figlio fedele al padre benigno, dal vassallo al Signore.
Mi sentii preda della più completa confusione. Quella lettera di Agga non solo mi privava del regno, ma anche della virilità. Eppure gli avevo giurato fedeltà! Per la Rete di Enlil gli avevo giurato fedeltà, e in quella rete ero rimasto impigliato. Le guance mi si infiammarono, lacrime di rabbia mi riempirono gli occhi. Lessi altre quattro volte il messaggio, e ogni volta le parole erano le stesse, ed erano parole maledette. Avrei dovuto prevederlo, ma non l’avevo previsto. Agga mi aveva accolto, quando ero senza casa. Agga mi aveva dato rango e privilegi nella sua città. Agga aveva cospirato con Inanna per farmi diventare Re. E ora mi presentava il conto. Ma in che modo potevo pagare il prezzo che mi chiedeva, e continuare a camminare a testa alta tra i Re del Paese e tra la gente di Uruk?
Quando calarono le tenebre, mi recai, da solo al santuario di Lugalbanda, mi inginocchiai e sussurrai: «Padre, che cosa farò?»
L’aura del Dio mi avvolse e io udii Lulgalbanda dire dentro di me: «Devi ad Agga amore e rispetto, e nulla di più».
«Ma il mio giuramento, padre! Il mio giuramento!»
«Non diceva nulla di un tributo. Se gli pagherai quanto chiede, gli venderai per sempre te stesso e la tua città. Ti sta mettendo alla prova. Vuole sapere se ti possiede. Ti possiede?»
«Nessuno mi possiede a parte gli Dei.»
«Allora sai che cosa devi fare,» disse Lugalbanda dentro di me.
Trascorsi la notte in preghiera, davanti ai vari Dei, vagando senza sosta per la città, da un Tempio all’altro. L’unica che non consultai fu Inanna, sebbene fosse la Dea della città. Per farlo, avrei dovuto confessarmi alla Sacerdotessa Inanna, e non volevo che lei conoscesse quella mia vergogna.
La mattina dopo, mentre gli emissari di Agga venivano distratti da donne e canti, mandai messaggeri a tutti gli anziani dell’assemblea, dicendo loro di venire subito a palazzo. In preda alla rabbia e all’ansia, camminai avanti e indietro davanti a loro, con le vene del collo gonfie e la fronte imperlata di sudore, finché non riuscii a parlare.
Allora dissi: «Ci è stato chiesto di sottometterci alla Casa di Kish. Ci è stato domandato di pagare un tributo.» Gli anziani cominciarono a brontolare. Io alzai in alto la tavoletta di Agga, la agitai con rabbia, e lessi ad alta voce la lista delle richieste. Quando ebbi terminato, alzai gli occhi e vidi i loro volti: pallidi, tesi, spaventati. «Come possiamo sottometterci a queste richieste?», chiesi. «Siamo forse vassalli? Siamo servi?»
«Kish è molto potente,» disse il proprietario terriero, Enlil-ennam.
«Il Re di Kish è il Signore del Paese,» aggiunse il vecchio Aliellati, di stirpe nobile e venerabile.
«Non è un tributo eccessivo,» disse il ricco Lu-Meshlam, in tono mite.
E tutti cominciarono ad annuire, inchinarsi e borbottare, e io capii che erano contrari alla mia sfida a Kish.
«Noi siamo una città libera!», gridai. «Ci dobbiamo arrendere dunque?»
«Ci sono pozzi da scavare e canali da dragare,» disse Aliellati. «Paghiamo il tributo che ci chiede Agga, e occupiamoci in pace delle nostre faccende. La guerra è molto costosa.»
«E Kish è molto potente,» disse Enlil-ennam.
«Io chiedo i vostri voti,» dissi. «Sfiderò Agga: datemi il vostro appoggio.»
«Pace,» dissero. «Tributo,» dissero. «Ci sono pozzi da scavare.»
Non volevano saperne di una guerra. In preda alla disperazione, li mandai via, e chiamai la Casa più giovane dell’assemblea, la Casa degli Uomini. Lessi loro la lista delle richieste di Agga, parlai della mia rabbia e della mia indignazione, e la Casa degli Uomini mi diede le risposte che volevo sentire. Sapevo in che modo parlare con loro. Infiammai le scintille del loro orgoglio, e feci appello al loro coraggio perché, se anche loro mi si rivoltavano contro, ero pèrduto. Avevo il potere di impormi sugli anziani, se dovevo, ma non potevo fare una guerra, se entrambe le Case dell’assemblea erano contro di me.
La Casa, degli Uomini non mi tradì. Non mi dissero nulla dei pozzi da scavare e dei canali da dragare. Gridarono il loro disprezzo all’idea del tributo. Io lessi loro la mia dichiarazione di guerra, e loro gridarono ancora più forte. «Non sottomettiamoci,» dissero. «Puniamo la Casa di Kish con le nostre armi, Gilgamesh, re ed eroe, conquistatore, Principe adorato di An tu distruggerai Kish.»