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Uno dopo l’altro, gli uomini della Casa degli Uomini si alzarono e gridarono parole squillanti.» Che cosa c’era da temere in un attacco di Agga?», chiesero. «La sua armata è piccola, la sua retroguardia è debole, i suoi uomini hanno paura di alzare gli occhi da terra.»

Io attribuivo un valore maggiore all’armata di Agga, e avevo buone ragioni per farlo. Come avrei potuto mai accettare di diventare vassallo di Kish? Qualsiasi fosse il pensiero di Agga circa il mio giuramento, in questa faccenda era in gioco la forza del mio regno, la forza della mia virilità. Non potevo regnare ad Uruk solo in base all’assenso del Re di Kish.

Così era deciso: avremmo lottato per la nostra libertà. Avremmo sfidato Agga. Avremmo passato l’estate a prepararci alla guerra. «Che venga pure,» dissi. «Saremo pronti.»

Andai a palazzo, dove colsi alla provvista gli ambasciatori di Agga che gozzovigliavano, e dissi loro, freddo come una pietra: «Ho letto la lettera di mio padre Agga, il vostro Re. E potete riferirgli questo: io trabocco di amore infinito per lui, e sento la più grande gratitudine per il favore che mi ha mostrato. Gli mando il mio più caloroso abbraccio. Questo è l’unico regalo che gli mando: il mio abbraccio più caloroso. Non c’è bisogno di altri regali tra padre e figlio, non è vero? E Agga è il mio secondo padre. Ditegli, allora che lo abbraccio.»

Quella sera gli ambasciatori ripartirono per Kish, portando con loro il mio abbraccio filiale, e nient’altro.

Poi cominciammo i nostri preparativi per la guerra. Non posso dire che la prospettiva mi rattristasse. Non sentivo quella musica selvaggia e calda da quando avevo combattuto per Agga nella terra di Elam, ed erano già trascorsi parecchi anni. Un uomo deve combattere ogni tanto, soprattutto se è Re, altrimenti comincerà ad arrugginirsi dentro: bisogna tenere la lama affilata, bisogna mantenere l’affilatezza del proprio spirito, che in ogni caso si spunterà in fretta, ma ancora più in fretta se non verrà usata. Perciò era ora di lucidare i carri, dì oliare i manici di giavellotti e lance, di affilare le lame, di prendere gli asini dalle stalle e rammentare loro che cosa significhi correre.

Nonostante il caldo pesante dell’estate incombesse su di noi, l’aria di Uruk sembrava frizzante in quei giorni, come se fosse pieno inverno. Era l’eccitazione, l’ansia, l’attesa. I giovani erano assetati di battaglia, come me. Era per questo che avevano zittito gli anziani: era per questo che avevano votato a favore della guerra.

Ma ci aspettava una sorpresa. Nessuno nel Paese combatte durante l’estate, se può evitarlo. In quei mesi, l’aria stessa sembra andare in fiamme, se ci si muove troppo in fretta. Perciò ero sicuro che avevamo tutta l’estate per prepararci all’arrivo di Agga, ma avevo torto.

Le mie capacità di giudizio erano ottenebrate. Infatti, Agga doveva essersi aspettato la mia disobbedienza, e le sue armate erano già pronte. Ero sicuro che fossero partite da Kish il giorno stesso che gli ambasciatori erano tornati con il mio messaggio. Le trombe mi diedero la notizia mentre dormivo tra le mie donne, all’alba, in uno dei giorni più afosi dell’estate. Barche di Kish avevano disceso rapidamente il fiume, mesi prima del previsto. Le truppe di Agga erano già al molo. Il porto era nelle loro mani, la città era assediata.

Era il primo vero esame delle mie capacità di Re: non avevo mai guidato un città in guerra. Uscii sulla terrazza del palazzo e suonai il tamburo che era stato costruito dal ramo dell’albero di Inanna. Era la prima volta che suonavo il tamburo della guerra di Uruk, ma non sarebbe stata l’ultima. I miei Eroi si raccolsero intorno a me con i volti scuri. Non erano sicuri delle mie capacità di condottiero. Molti avevano combattuto nelle guerre di Dumuzi, alcuni avevano combattuto nelle armate di Lugalbanda: c’era perfino qualcuno che ricordava Enmerkar, ma nessuno aveva combattuto sotto il mio comando.

«Chi ha il coraggio,» dissi, «di andare da Agga a chiedergli perché ha violato i nostri confini?»

Lo splendido guerriero Bir-hurturre si fece avanti. Gli occhi gli scintillavano. Era diventato alto e forte, e io pensavo che non ci fosse uomo più valoroso in tutta Uruk. «Andrò io,» replicò.

Sistemai le truppe dietro ogni porta della città, la Porta Alta, la Porta Regale, la Porta Settentrionale, la Porta Santa, la Porta di Ur, la Porta di Nippur e le altre. Mandai delle pattuglie a sorvegliare il perimetro delle mura per difenderle dai soldati di Kish, se avessero tentato di scalarle con scale, o di aprire una breccia tra i mattoni. Poi aprimmo la Porta dell’Acqua, e Bir-hurturre uscì a parlamentare con Agga. Ma aveva fatto meno di dieci passi, quando i soldati di Kish lo afferrarono e lo portarono via. Fecero questo per ordine di Agga figlio di Enmebaraggesi, proprio colui che mi aveva insegnato che gli ambasciatori erano sacri. Ma forse si riferiva solo agli ambasciatori di Kish.

Zabardi-bunugga corse da me con la notizia.

«Lo stanno torturando!»

Zabardi-bunugga era il mio comandante in terza; un uomo robusto, non più bello di quanto lo fosse da bambino, ma fedele e deciso. Mi disse che si era arrampicato sulle mura fino al posto di vedetta della torre di Lugalbanda e aveva visto gli uomini di Kish assalire Bir-hurturre, colpirlo, picchiarlo, prenderlo a calci. «Enlil divorerà loro il fegato!» Risposi. E mi disse che, quando ero salito sulle mura, i soldati di Kish lo avevano chiamato e gli avevano chiesto se era il Re Gilgamesh. Egli aveva gridato di rimando che non lo era, che non era niente al confronto del Re.

«Ci liberiamo di loro subito?», chiese.

«Aspetta un altro po’,» gli risposi. «Salirò sulle mura per vedere con che genere di nemici abbiamo a che fare.»

Attraversai a grandi passi le strade. Delle facce mi guardavano dai tetti: era la gente normale, spaventata, terrorizzata. Erano passati molti anni da quando un nemico era arrivato fino alle porte di Uruk: non sapevano che cosa aspettarsi, e temevano il peggio. Salii a due, tre alla volta, gli ampi gradini di mattone della torre di Lugalbanda. Portavo una bandiera blu e gialla che avevo preso da uno dei guardiani della torre. Uscii sulla grande piattaforma che era sulla cima delle mura.

Le orecchie mi rombarono, quando guardai il mare di invasori.

Le lance di Agga si affollavano intorno ai nostri moli. Le truppe di Kish ondeggiavano sulle banchine. Vidi le bandiere di Kish, cremisi e smeraldo. Vidi facce robuste e abbronzate, uomini che conoscevo, guerrieri insieme ai quali avevo spazzato via i soldati di Elam come fossero polvere. Sotto il feroce sole dell’estate, portavano le loro maglie di pesante feltro nero senza mostrare alcun disagio; la luce splendeva come una fiamma sui loro scintillanti elmetti di rame. Vidi due dei figli di Agga. Vidi sei alti ufficiali della campagna di Elam. Vidi Namhani, il mio vecchio auriga, e lui vide me, agitò le mani, mi indicò, mi sorrise con la sua bocca sdentata e mi chiamò con il nome con cui ero conosciuto a Kish.

«No,» risposi con un ruggito, «Gilgamesh! Io sono Gilgamesh!»

«Gilgamesh,» mi risposero. «Guardate, è Gilgamesh, Gilgamesh il Re!»

Non avevo lo scudo, e mi stagliai contro il cielo, ma non abbi paura. Non avrebbero osato gettare una lancia contro di Re di Uruk. Feci correre lo sguardo da sud a nord: erano centinaia, forse migliaia. Avevano montato le tende, per cui si preparavano ad un lungo assedio.

«Dov’è Agga?», gridai. «Fate venire il vostro Re. Oppure ha paura di farsi vedere?»

Agga arrivò. Se io non avevo paura di mostrarmi sulle mura, lui non poteva essere da meno. Uscì da una delle tende più lontane, muovendosi lentamente, più grasso che mai; una vera montagna di carne, con la pelle rosa, rasato dal cranio al mento. Non aveva armi, e si appoggiava ad un bastone di legno nero, intagliato con curve ed angoli che mi facevano girare la testa. Quando fu vicino a me, io gli feci un gentile inchino e dissi con voce calma: «Ti do il benvenuto nella mia città, padre Agga. Se avessi annunciato la tua visita, mi sarei preparato meglio a riceverti.»