«Hai un bell’aspetto, Gilgamesh. Ti ringrazio per l’abbraccio che mi hai mandato.»
«Era solo mio dovere.»
«Mi aspettavo di più.»
«In realtà, hai avuto più di quanto dovevi. Dov’è il mio ambasciatore, Bir-hurturre, padre Agga?»
«Stiamo discutendo alcune cose con lui, in una delle nostre tende.»
«Mi è stato detto che i tuoi uomini l’hanno picchiato, preso a calci, buttato nella polvere e torturato, padre Agga. Penso di aver trattato con maggiore gentilezza i tuoi ambasciatori.»
«È stato indisciplinato e ha mancato di cortesia. Gli stiamo insegnando ad essere cortese, figlio mio.»
«Ad Uruk io solo, e nessun altro, impartisco queste lezioni,» dissi. «Restituiscimelo, e allora ti inviterò ad entrare nella città per il banchetto che è mio dovere offrire ad un ospite della tua nobiltà.»
«Ah,» disse Agga, «Penso che mi inviterò da solo ad entrare. E porterò il tuo servo con me, quando avrò finito con lui. Il Signore del Paese ha decretato così.»
«Così sia,» replicai. Mi girai e gettai la bandiera all’interno delle mura. Era il segnale: aprimmo contemporaneamente tutte le porte, e assalimmo gli uomini di Kish.
Quando un nemico arriva alle porte di una città cinta di mura, di solito è meglio aspettare dentro, soprattutto se il nemico è stato così avventato da arrivare in estate. Durante la stagione secca non c’è cibo al di fuori delle mura, tranne le provviste conservate nei granai esterni, e quando queste sono finite, non resta niente agli assedianti. All’interno delle mura, avevamo provviste sufficienti a resistere fino all’inverno, e acqua da bere in abbondanza. I nostri nemici avrebbero sofferto più di noi, e alla fine si sarebbero ritirati: questo suggerisce il buon senso comune.
Ma il buon senso comune non sempre si applica. Agga capiva queste cose anche meglio di me. Se aveva scelto di assediare la città d’estate, era chiaro che non intendeva far durare a lungo l’assedio. Perciò intuii che aveva intenzione di fare un attacco diretto. Le mura di Uruk — le aveva costruite Enmerkar — non erano alte, a quel tempo, come lo sono di solito le mura di una grande città. Senza dubbio c’erano scale in abbondanza nelle barche di Agga, e dopo poco i guerrieri di Kish si sarebbero arrampicati sulle nostre mura in centinaia di punti contemporaneamente. Nel frattempo, i loro portatori d’ascia avrebbero tentato di aprire delle brecce nei bastioni: conoscevo bene le asce di Kish, che sarebbero penetrate facilmente nei vecchi mattoni delle nostre mura. Perciò era inutile restare all’interno della città ad aspettare che loro attaccassero. Avevo al mio comando più uomini di quanti Agga ne avesse portati con sé. Una volta che fossero entrati, lanciando le torce, noi saremmo stati alla loro mercé ma, se io fossi riuscito a sconfiggerli sul molo, saremmo stati salvi. Dovevamo essere noi ad attaccare.
Irrompemmo sui carri contemporaneamente da cinque porte. Penso non si aspettassero di vederci uscire così presto, e non si aspettavano che uscissimo comunque. Erano fiduciosi e arroganti, e pensavano che io mi sarei inginocchiato ai piedi di Agga senza lottare. Ma piombammo su di loro con le asce levate e le lance fiammeggianti. Il carro di Zabardi-bunugga era all’avanguardia, con altri dieci alle spalle, che portavano i migliori guerrieri della città.
Gli uomini di Kish affrontarono quella prima ondata con valore ed energia. Sapevo come sapevano combattere: in realtà, li conoscevo meglio dei miei stessi soldati. Ma, mentre si svolgevano le prime scaramucce, scesi dalle mura, montai sul mio carro e guidai la seconda ondata dell’attacco.
Sarò molto sincero a questo proposito: quando gli uomini di Kish mi scorsero, furono terrorizzati e raggelati dalla paura. Mi avevano conosciuto durante la guerra di Elam ma, sebbene si ricordassero di me, non mi ricordavano bene come avrebbero dovuto, finché non mi videro irrompere nella mischia, lanciando i giavellotti sia con la mano destra sia con la sinistra. Solo allora ricordarono.
«È il figlio di Lugalbanda!», gridarono, e furono presi dal panico.
Non sì può fingere: non esiste musica più bella della musica che si sente nell’aria su un campo di battaglia. La gioia mi invase, e io avanzai verso il nemico come un emissario della morte. Il mio auriga quel giorno era il coraggioso Enkimansi, un uomo dalla faccia stretta, di trent’anni, che non sapeva che cosa fosse la paura. Incitò gli asini all’attacco. Io stavo in piedi alle sue spalle, lanciando le mie armi come se sfogassi l’ira di Enlil su Kish. Il mio primo lancio costò la vita ad un figlio di Agga; il secondo e il terzo uccisero due dei suoi generali. Il quarto trafisse la gola di uno degli ambasciatori che mi avevano portato il messaggio di Agga. «Lugalbanda!», gridai. «Padre del Cielo! Inanna! Inanna! Inanna!» Era un grido che gli uomini di Kish avevano già sentito. Sapevano che quel giorno un Dio combatteva tra loro, o almeno un Dio minore, con la divina acutezza della sua vista e la divina forza del suo braccio.
Entrai nella breccia aperta da Zabardi-bunugga e dagli altri carri, e mi incuneai tra gli uomini di Kish. Dietro di me venivano i fanti, gridando: «Gilgamesh! Inanna! Gilgamesh! Inanna!»
Devo dare agli uomini di Kish un merito: avevano coraggio. Cercarono di fare del loro meglio per uccidermi, e solo i miei rapidi movimenti con lo scudo e le abili manovre del capace Enkimansi mi salvarono. Ma niente mi fermava. Il terrore li sopraffece loro malgrado, e gli uomini di Kish si girarono e corsero verso l’acqua. Ma noi li attaccammo dai lati e cominciammo a massacrarli.
L’azione era stata molto più veloce di quanto avessi sperato. Ne rotolammo a migliaia nella polvere. Arrivammo alle loro barche, le prendemmo, ne tagliammo le prue, e portammo via come trofei le statue di Enlil. Liberammo Bir-hurturre, e lo trovammo ancora in buona salute, sebbene fosse insanguinato e graffiato. Per quanto riguarda Agga, ci facemmo strada con le armi fino a lui e lo facemmo prigioniero. Il Re di Kish non combatteva, era troppo anziano, ma era circondato da cento guardie scelte, che morirono tutte fino all’ultimo. Zabardi-bunugga portò Agga da me. Io ero appoggiato al mio carro e bevevo da una bottiglia di birra di Kish che avevo preso ad uno dei camerieri.
Agga era impolverato, sudato e arrossato, e i suoi occhi erano appannati dalla stanchezza e dal dispiacere. Aveva una piccola ferita sulla spalla sinistra, solo un graffio, ma mi vergognai del fatto che il Re fosse stato colpito. Feci un cenno ad uno dei chirurghi da campo. «Pulisci e fascia la ferita del Re dei Re,» dissi. Poi mi avvicinai ad Agga e, con suo grande stupore, mi inginocchiai ai suoi piedi. «Padre,» dissi. «Signore del Paese.»
«Non prendermi in giro, Gilgamesh,» mormorò il Re.
Scossi il capo. Mi rialzai e gli misi in mano la bottiglia di birra, dicendogli: «Bevine. Allevierà la tua sete, padre.»
Lui mi guardò con tristezza. Con lentezza portò una mano al ventre e massaggiò i rotoli di carne. Rivoletti di sudore gli scorsero per il corpo, bagnando la polvere che gli ricopriva la pelle. Non lo negherò: assaporavo il mio trionfo, godevo della sua sconfitta. Era come un vino dolce per me.
«Che ne farai di me?», chiese.
«Sarai mio ospite al palazzo questa sera, e per due giorni ancora. Poi compiremo il rito della sepoltura dei morti. Solo allora ripartirai per Kish. Non sei forse il mio Signore, il Re dei Re, a cui ho giurato fedeltà?».
Allora Agga mi capì, e la rabbia gli fece fiammeggiare gli occhi; ma poi scoppio a ridere; guardò con tristezza i suoi guerrieri e i suoi figli ammucchiati nella polvere insanguinata, le sue barche mutilate, e annuì.
«Ah, è così?» mi disse dopo qualche momento. «Non pensavo che tu fossi così astuto.»