Nessuno si ribellava a me. Nessuno avrebbe voluto, nessuno avrebbe potuto farlo: io ero il Re, la mia forza era la forza delle schiere celesti. Non vedevo nulla di male in quello che facevo. Non erano miei privilegi, in quanto Re, in quanto Dio, in quanto pastore del popolo? Era possibile lasciarmi insoddisfatto, quando i miei appetiti infuriavano con tanta violenza?
Ah, il vino, la birra, la musica, le canzoni di quelle notti E le donne, le donne, le loro labbra dolci, le loro cosce lisce, i loro seni morbidi! Non riposavo mai. Non mi fermavo mai. Il rullare del tamburo era implacabile. Di giorno guidavo gli uomini nella costruzione delle mura o nei giochi di guerra, finché non avevano gli occhi annebbiati dalla fatica, e di notte mi facevo strada tra le loro donne, come un fuoco che divampi tra l’erba secca d’estate.
Non ero mai stanco. Uruk si stava stancando di me, ma io non lo sapevo ancora.
Poi arrivò la stagione dell’anno nuovo, e tornò il giorno del Matrimonio Sacro. Ero Re di Uruk da un anno e qualche mese. Quella notte la Dea sarebbe stata mia per la seconda volta. Eseguii i riti di purificazione, meditati nel buio e nel silenzio della casa di Dumuzi, e quando arrivò la sera, mi portarono nel modo tradizionale — in barca — da Inanna.
Quando sbarcai sul molo dove avevo distrutto l’esercito di Agga e entrai nella città attraverso una delle porte che si aprivano nel muro costruito da me, sentii un’ondata di orgoglio per tutto quello che avevo conquistato. Mi sentii veramente un Dio: non qualcuno che ha qualche goccia di sangue divino nelle vene, ma un vero Dio, uno dei portatori della corona con le corna, che camminano nello splendore del cielo. Avevo torto a sentirmi così orgoglioso? Ero tornato dall’esilio per salire sul trono, avevo riparato i canali, avevo schiacciato i nemici più potenti, avevo costruito le mura di Uruk, e avevo fatto tutto questo prima di compire il mio ventesimo anno di età. Non era divino averlo fatto? Non avevo ragione di essere orgoglioso?
Quella notte la Dea mi aspettava.
In quei mesi avevo avuto poche occasioni di vederla: solo ai soliti sacrifici e rituali che esigevano la presenza di entrambi. Non ci eravamo mai visti in altre occasioni. A volte sarei potuto andare da lei a chiedere il suo consiglio o la sua benedizione, e non l’avevo fatto. A volte sarebbe potuta venirmi a cercare lei, ma non l’aveva fatto. Penso che capissi anche allora perché ci tenessimo a quella prudente distanza. Ad Uruk eravamo come Re rivali: lei aveva la sua zona di potere, io avevo la mia fede. Ma io stavo già allargando la mia zona: non lo facevo con l’intento di provocare la sua inimicizia, ma solo perché non conoscevo nessun altro modo di essere Re se non quello di esercitare pienamente il potere.
Quando avevo combattuto contro Agga, non avevo chiesto il suo consenso: mi sembrava troppo rischioso, dal momento che avevo già incontrato l’opposizione della Casa degli anziani. La guerra doveva essere combattuta, e con Inanna contro di me, non sarei riuscito ad arruolare tutti gli uomini di cui avevo bisogno: per questo motivo non avevo consultato Inanna. Temevo l’interferenza che poteva creare il suo potere. Mi preoccupavo ancora di pormi aldilà della portata di quel potere. E lei, vista la forza crescente della mia autorità, si era ritirata, incerta delle mie intenzioni, contraria a sfidarmi prima di capire completamente i miei scopi.
Ma durante la notte del Matrimonio Sacro, tutte queste tristi considerazioni sulla ragion di stato vengono messe da parte. Andai da lei nella grande camera del Tempio e la trovai scintillante nei suoi olii e nei suoi ornamenti. La salutai e le dissi che era la mia gemma sacra, e lei mi chiamò il suo regale marito, la sua fontana di vita. Eseguimmo il rito della presentazione e, quando fu compiuto, entrammo nella camera dei giunchi verdi dal dolce odore, e le ancelle della Dea le tolsero le sfoglie di alabastro e d’oro lasciandola nuda per me.
Quando restammo soli, le poggiai le mani sulle spalle, guardai profondamente nel mistero scintillante dei suoi occhi, e lei mi sorrise come mi aveva sorriso quella prima volta quando eravamo bambini, un sorriso che in parte era caldo e affettuoso, in parte orgoglioso, intenso, di sfida.
Sapevo che mi avrebbe divorato se avesse potuto, ma quella notte era mia. Era diventata ancora più bella nei dodici mesi che erano trascorsi: il suo seno era alto, la vita stretta, i fianchi larghi, le unghie erano lunghe come daghe, ed erano dipinte del color della luna durante le eclissi. Mi invitò a letto con un unico piccolo cenno della mano.
Ci lasciammo cadere sui cuscini e ci abbracciammo. La sua pelle sembrava la stoffa che si intessé nel cielo. Il mio corpo coprì il suo, e il suo dorso si inarcò sotto di me. Le sue dita si conficcarono tra i tendini e i muscoli delle mie spalle: tirò le ginocchia contro il petto e le rivolse verso l’esterno, socchiuse la bocca, la lingua guizzò tra i denti, il suo respiro divenne un pesante sibilo. Tenne sempre gli occhi aperti, come le donne fanno raramente. Me ne accorsi, perché anch’io tenni gli occhi aperti, in ogni attimo di quella notte.
All’alba sentii arrivare la prima pioggia dell’anno nuovo, un lieve tamburellare sugli antichi mattoni bianchi del Tempio. Scesi dal letto e mi girai in cerca della tunica, in modo da andarmene. Lei stava distesa e mi guardava. Mi guardava nello stesso modo in cui i serpenti guardano la preda.
«Resta ancora,» disse sottovoce. «La notte non è ancora finita.»
«Il tamburo rulla. Devo andare via.»
«Tutta la città dorme. I tuoi amici sognano ancora i loro sogni da ubriachi. Che cosa puoi fare da solo a quest’ora?» Fece le fusa: diffido dei serpenti che fanno le fusa. «Torna a letto, Gilgamesh. La notte non è ancora finita, ascoltami.»
Con un sorriso, dissi: «Tu non hai ancora finito, vuoi dire.»
«E tu hai finito, allora?»
Mi strinsi nelle spalle.
«Abbiamo compiuto il rito. E lo abbiamo compiuto abbondantemente, direi.»
«E così l’insaziabile è sazio per il momento? Oppure ti sei stancato di me, e sei pronto a cercare la prossima donna della giornata?»
«Sei crudele, Inanna.»
«Ma ho ragione: è vero, Gilgamesh? Non ne hai mai abbastanza. Mai abbastanza di donne, mai abbastanza di vino, mai abbastanza di lavorare, mai abbastanza di combattere. Infuri per Uruk come un torrente, spazzando tutto davanti a te. Sei un fardello sotto il quale tutta la città geme. Il popolo chiede misericordia, tanto tu li opprimi.»
Mi sentii punto sul vivo. Spalancai gli occhi per la sorpresa.
«Io, un oppressore? Io sono un Re giusto e saggio, Inanna!»
«Forse lo sei. Senza dubbio, credi di esserlo. Ma opprimi e schiacci il tuo popolo. Fai marciare i giovani su e giù, su e giù lungo i campi di addestramento, finché non cade loro un velo nero davanti agli occhi e non si buttano a terra esausti, ma anche allora tu non hai pietà di loro. E le donne! Nessuno ha mai consumato le donne come fai tu. Le usi come se fossero giocattoli: cinque, sei, dieci a notte. Mi è stato raccontato.»
«Non dieci a notte,» dissi. «Né sei, né cinque.»
Lei sorrise.
«È così che si dice. Si dice che nessuna ti soddisfa, che sembri un toro selvaggio. La gente mi guarda e dice, “Solo una Dea può soddisfarlo.” Ebbene, c’è una Dea in me, e tu ed io abbiamo passato questa notte insieme. Sei soddisfatto, una volta tanto? È per questo che ora sei così ansioso di andartene?»
Ero ansioso di andarmene perché non avevo nessuna difesa contro quel suo attacco violento. Ma non l’avrei mai ammesso davanti a lei. In tono secco, dissi: «Vorrei camminare da solo sotto la pioggia.»
«Va’, allora, e poi torna,» Gli occhi le scintillarono. Aveva dentro di sé la forza di una frusta sferzante. Raccolsi da terra la mia tunica, esitai, la lasciai ricadere e restai nudo davanti a lei. Si sentiva l’odore muschiato della nostra notte d’amore. Gli ultimi resti di incenso scoppiettavano nel vaso. Le sue labbra erano tirate, le narici erano dilatate. A voce bassa e rauca chiese: «Tornerai? Per te ci sono dieci donne ogni notte, Gilgamesh. Per me ci sei solo tu, una notte all’anno.»