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Ad un tratto ebbi meno paura di lei, quando mi accorsi che cercava di allettarmi facendo leva sulla pietà.

«Ah, è così, Inanna? Nessun’altro per tutto il resto dell’anno?»

«Chi altri oltre il Dio può toccare la Dea, secondo te?»

Mi feci audace. Osai stuzzicarla.

«Nemmeno in segreto?», le chiesi in tono scherzoso. «Qualche bello schiavo, convocato nel Tempio nel pieno della notte…»

Fu presa dall’ira. Si tirò le mani al seno. Le dita si strinsero e sembrarono artigli. «Dici una cosa simile nel Tempio? Vergogna, Gilgamesh, vergogna!» Poi si addolcì. Si stese come un gattino, fece di nuovo le fusa, alzò un ginocchio e fece scivolare il piede lungo il polpaccio dell’altra gamba. In tono più gentile disse: «Ci sei solo tu, per una sola notte all’anno. Lo giuro, anche se giurarlo mi ripugna. Ci sei solo tu. Non voglio ancora che tu mi lasci. Resterai? Resterai solo un’altro po’? È l’unica notte che ho, questa notte.»

«Voglio prima purificarmi sotto la pioggia,» dissi.

Restai per qualche minuto fuori del Tempio, nell’aria pura di quella pioggia e di quell’alba. Poi ritornai da lei. Gatto o serpente, Sacerdotessa o Dea, non potevo rifiutarmi, se era l’unica notte dell’anno in cui poteva conoscere un abbraccio.

E la pioggia mi liberò di ogni stanchezza, ridestò la mia forza e il mio desiderio. Non mi sarei rifiutato. La desideravo. Andai da lei e ricominciammo la nostra notte.

18

All’inizio dell’anno nuovo feci uno strano sogno, e non riuscii a comprenderne il senso. Durante la stessa notte, feci un altro sogno, altrettanto strano, altrettanto incomprensibile.

Mi turbò il fatto che capissi così poco di quei due sogni. Gli Dei spesso parlano ai Re in sogno, e forse mi era stata data una notizia importante riguardo al benessere della città. Allora andai al Tempio di An e raccontai i sogni a mia madre, la saggia Sacerdotessa Ninsun.

Mi ricevette nella sua camera, una stanza dalle pareti scure, con grandi pilastri dipinti color cremisi. Indossava un manto bianco, bordato in basso da un’ampia fascia di lapislazzuli, d’oro e di cornaline. La circondava, come sempre, un’atmosfera di tranquillità, e di bellezza: tutto poteva essere in guerra, ma lei era sempre in pace.

Prese le mie mani tra le sue, piccole e fredde, e le tenne a lungo, sorridendo, aspettando che cominciassi a parlare.

«La notte scorsa,» dissi dopo qualche momento, «Ho sognato di sentire una grande felicità e di camminare colmo di gioia tra gli altri giovani eroi. La notte scendeva, e nel cielo apparivano le stelle. E, mentre stavo sotto la volta celeste, una delle stelle cadeva sulla terra, una stella che aveva in sé l’essenza del Padre del Cielo, An.

«Cercavo di alzarla, ma era troppo pesante per me. Cercavo di spostarla, ma non ci riuscivo. Tutta Uruk si raccoglieva intorno a guardare. La gente comune si accalcava, i Nobili si inginocchiavano e baciavano il suolo che era davanti alla stella. E io ne ero attratto come sarei stato attratto da una donna. Mettevo un tirante di cuoio intorno alla fronte, raccoglievo tutte le mie forze, e con l’aiuto dei giovani guerrieri alzavo la stella e la portavo da te. E tu mi dicevi, madre, che la stella era mio fratello. Questo era il sogno. Il suo significato mi sfugge.»

Ninsun fissò lo sguardo nel vuoto. Poi disse, ancora sorridendo: «So che cosa significa.»

«Dimmelo, allora.»

«Quella stella del cielo, che ti attraeva così come ti avrebbe attratto una donna, è un compagno di grande forza, è un amico fedele, il tuo salvatore, il fratello che non ti abbandonerà mai. La sua forza è simile alla forza di An, e tu l’amerai come ami te stesso.»

Mi accigliai, al pensiero di quell’enorme solitudine che ritenevo il prezzo ineluttabile del mio regno, e a quanto ne ero stanco.

«Un amico? A quale amico ti riferisci, madre?»

«Lo capirai quando arriverà,» rispose.

Dissi: «Madre, ho fatto un altro sogno durante la stessa notte.»

Lei annuì. Aveva l’aria di saperlo.

«Un’ascia dalla strana forma era posata a terra in una delle strade di Uruk dalle grandi mura,» dissi, «un’ascia diversa da ogni tipo di ascia conosciuta. Tutta la gente si raccoglieva intorno all’ascia, la guardava, sussurrava. Non appena la vidi, ne fui felice. L’amavo, ne ero attratto come sarei stato attratto da una donna. La raccolsi e me la legai ad un fianco. Questo è il secondo sogno.»

«L’ascia che hai sognato è un uomo. È il compagno che ti è destinato…»

«Di nuovo il compagno!»

«Si, di nuovo il compagno. Il compagno coraggioso che salva l’amico nel momento del bisogno. Verrà da te.»

«Spero che gli Dei lo mandino presto, allora,» dissi con grande fervore.

Mi feci più vicino a mia madre e le dissi quello che non avrei mai rivelato a nessuno: ero disperato, una solitudine grande e terribile mi aveva assalito nel pieno della mia gloria e della mia ricchezza. Non erano parole difficili da dirsi. Due volte la voce mi mancò, ma io mi costrinsi a pronunciare quelle parole. Mia madre sorrise e annuì. Lo sapeva. Penso che fosse stata lei a spingere gli Dei a darmi un compagno. Quando lasciai il suo Tempio quella mattina, sentivo una grande leggerezza nel mio animo, come se il vento avesse soffiato via delle nubi pesanti che avevano oppresso l’aria per giorni e giorni.

Nello stesso periodo in cui feci questi due sogni, un fatto molto strano — lo venni a sapere in seguito — capitò ad un uomo che non conoscevo, un cacciatore che si chiamava Ku-ninda. Questo Ku-ninda abitava in uno dei villaggi esterni, e si guadagnava da vivere catturando la selvaggina con le trappole. Ma un giorno si era recato nella zona selvaggia lungo il fiume a controllare le trappole che aveva messo e le aveva trovate tutte distrutte. Tutti gli animali che potevano esservi rimasti intrappolati, erano stati liberati. E quando andò a guardare le buche che aveva scavate, scoprì che erano state tutte riempite.

Era un mistero per Ku-ninda. Nessuna persona civile distrugge le trappole di un cacciatore o ne riempie le buche: è una scortesia, un atto ignobile. Allora Ku-ninda si mise alla ricerca dell’uomo che gli aveva fatto quei torti, e ben presto lo scorse. Ma era diverso da qualsiasi altro uomo avesse mai visto.

Era di dimensioni enormi, nudo, con la pelle ruvida e irsuta, coperto dovunque da ispidi peli. Più simile ad un animale che a un uomo, sembrava una creatura selvaggia delle colline. Si comportava come una bestia: si muoveva a quattro zampe, grugniva, soffiava, correva veloce. Gli animali della zona selvaggia non sembravano aver paura di lui, e gli correvano tranquillamente accanto.

Ku-ninda vide l’uomo selvaggio tra le gazzelle sulle colline: pascolava con loro, le carezzava, mangiava l’erba quando le bestie mangiavano l’erba. Ku-ninda fu turbato dalla stranezza dello spettacolo, e preparò altre trappole. L’uomo selvaggio le trovò e le distrusse, una per una.

Un giorno Ku-ninda incontrò l’uomo selvaggio alla pozza alla quale si abbeveravano gli animali: si trovarono faccia a faccia. «Tu, selvaggio, perché distruggi le mie trappole?», domandò Ku-ninda. L’uomo selvaggio non rispose: si limitò ad annusare. Grugnì, soffiò, scoprì i denti, lo guardò con occhi torvi. Un filo di bava gli schiumò dalla bocca rotolandogli lungo la folta barba. Ku-ninda non era un vigliacco, ma si ritrasse: aveva il volto paralizzato dalla paura, e il terrore gli intorpidiva gli arti.

Il giorno seguente si incontrarono di nuovo alla pozza, e due giorni dopo si ripeté l’incontro: e ogni volta, quando l’uomo selvaggio vedeva Ku-ninda, grugniva e soffiava. Ku-ninda non osava avvicinarglisi. Alla fine, quando capì che l’irsuto selvaggio gli rendeva impossibile la caccia, Ku-ninda rinunciò, e tornò a mani vuote al suo villaggio, in preda ad un grande abbattimento.