Raccontò questa storia al padre, che gli disse: «Va’ ad Uruk, e presentati al Re Gilgamesh. Non c’è nessuno più potente di lui: troverà il modo di aiutarti.»
Quando arrivò il giorno in cui concedevo udienza alla gente comune, Ku-ninda mi aspettava nella sala delle udienze. Era un uomo forte e robusto, alto, con una faccia scarna e dura e un paio d’occhi penetranti. Era vestito di pelli nere, e diffondeva intorno a sé l’odore della carne selvatica e del sangue. Mi mise davanti un’offerta di carne e disse: «C’è un uomo selvaggio nei campi che mi distrugge le trappole e mi libera le prede. È forte quanto le schiere celesti e non ho il coraggio di avvicinarmi a lui.»
Mi sembrò strano che quel robusto Ku-ninda avesse paura di qualcuno o di qualche cosa. Gli chiesi di dirmi di più, e lui mi parlò dei grugniti, dei ringhi, mi raccontò che l’uomo selvaggio correva insieme alle gazzelle sulle colline, e che pascolava sull’erba accanto a loro. Qualcosa in quel racconto mi sconvolse profondamente e mi affascinò. Mi venne la pelle d’oca per la meraviglia e per lo stupore, e sulla nuca mi si rizzarono i capelli. «Che meraviglia!», esclamai. «Che mistero!»
«Ucciderete quella creatura per me?»
«Ucciderlo? Non credo. Sarebbe un peccato ucciderlo solo perché è selvaggio. Ma non possiamo lasciarlo libero di correre per i campi, penso. Lo prenderemo in una trappola.»
«Impossibile, Maestà!», gridò Ku-ninda. «Non lo avete visto! È forte quanto voi! Non c’è trappola che possa trattenerlo!»
«Una c’è, credo,» dissi con un sorriso.
Mentre Ku-ninda parlava: mi era venuta un’idea: un particolare di una delle vecchie storie che cantava l’arpista Ur-kurnunna nel cortile del palazzo, quando ero bambino. Forse era il racconto della Dea Nawirtum e del Demone-mostro Zababa-shum, o forse la Dea era Ninshubur e il mostro era Lahamu: non ricordo, ma i nomi non sono importanti. Il succo del racconto era il potere della bellezza femminile sulla forza delle creature violente e selvagge.
Mandai a chiamare al Tempio la Cortigiana Santa Abisimti, la donna dai seni rotondi e dai lunghi capelli lucenti che mi aveva iniziato ai riti dell’amore carnale quando ero adolescente. Le dissi che cosa volevo che facesse. Non ebbe alcuna esitazione. C’era della vera santità in Abisimti. Era, in tutti i sensi, una serva degli Dei, e il suo modo di fornire i propri servizi era offrirli senza esitazioni, che è poi il solo vero modo di farlo.
Poi Ku-ninda portò con sé Abisimti nella steppa, nei terreni di caccia, alla pozza dove Ku-ninda aveva incontrato più volte l’uomo selvaggio, a tre giorni di viaggio da Uruk. Aspettarono un giorno, aspettarono un altro giorno, poi l’uomo selvaggio arrivò.
«Eccolo,» disse Ku-ninda. «Avvicinati subito, usa le tue arti su di lui.»
Senza paura e senza vergogna. Abisimti si avvicinò all’uomo selvaggio e gli si fermò davanti. Questi grugnì, sbuffò, brontolò, senza capire che genere di creatura fosse Abisimti, ma non ringhiò, non scoprì i denti. Lei sciolse la tunica e scoprì i seni. Penso che non avesse mai visto una donna, ma il potere della Dea è grande, e la Dea gli fece comprendere la bellezza di Abisimti. Lei si denudò, gli mostrò la sua nudità morbida e matura, gli riempì le narici del ricco profumo del suo corpo, si stese al suo fianco, lo accarezzò, tirò il corpo di lui sul proprio in modo che l’uomo selvaggio la possedesse.
Fu la sua iniziazione. Era simile ad una bestia, ma dopo essersi unito a lei era diventato un uomo. Sarebbe altrettanto giusto dire che unendosi ad Abisimti era diventato un Dio. Perché è così che l’essenza divina penetra in noi: attraverso il rito che rinnova la vita.
Si accoppiarono per sei giorni e sei notti. Posso testimoniare io stesso sulle capacità di Absimti: non avrei potuto mandargli nessuna più preparata di lei nelle arti della carne. Quando si unì ad Enkidu — questo era il nome dell’uomo selvaggio, Enkidu — Abisimti fece certamente uso di tutte le proprie capacità, e dopo una simile unione Enkidu non poteva più essere lo stesso. In quelle calde notti e in quei caldi giorni, tutto il suo essere selvaggio fu bruciato nella fornace della passione di Abisimti. Si addolcì, divenne più gentile, abbandonò i suoi grugniti e ringhi selvatici. Acquisì il potere della parola: divenne un uomo.
Ma non sapeva ancora che cosa gli era capitato. Quando si fu saziato della donna, si alzò per tornare ai suoi animali. Ma le gazzelle corsero via spaventate quando Enkidu si avvicinò. Aveva addosso l’odore degli esseri umani, l’odore della civiltà. Le creature selvagge della steppa non lo riconoscevano più, e si allontanavano da lui.
Quando gli animali scapparono, avrebbe voluto seguirli, ma il suo corpo era legato come da una corda, le ginocchia non gli servivano più a niente, tutta la sua celerità era scomparsa. Con lentezza, con stupore, ritornò da Abisimti, che gli sorrise teneramente e lo attirò accanto a sé.
«Tu non sei più selvaggio,» disse, a gesti più che a parole, perché l’uomo non era ancora abile con le parole. «Perché vuoi ancora vagare con gli animali della steppa?»
Poi gli parlò degli Dei, del Paese, delle città degli uomini, di Uruk dalle grandi mura, e di Gilgamesh il suo Re.
«Alzati,» disse. «Vieni con me ad Uruk, dove ogni giorno è una festa, dove le persone vestono abiti meravigliosi. Vieni al Tempio della Dea, affinché ti dia il benvenuto nel mondo degli uomini. Vieni al Tempio del Padre del Cielo, dove riceverai le benedizioni del cielo. E ti farò vedere Gilgamesh, il Re, l’Eroe splendente di virilità, il più forte tra gli uomini, che domina tutto e tutti.»
A queste ultime parole gli occhi di Enkidu si accesero e il volto arrossì. L’uomo disse, con la lingua impacciata che ricordava ancora i versi degli animali, che sarebbe andato con lei ad Uruk, al Tempio di Inanna e al Tempio di An. Ma, soprattutto, che desiderava vedere Gilgamesh il Re, il cosiddetto uomo forte.
«Ho intenzione di sfidarlo,» gridò Enkidu. «Gli farò vedere chi di noi è il più forte. Gli farò sentire la forza dell’uomo delle steppe. Cambierò le cose ad Uruk, muterò i destini, io che sono il più forte di tutti!»
O, almeno, questo fu il senso delle parole che Abisimti mi riferì in seguito.
Così fu intrappolato il selvaggio Enkidu. Secondo il piano che avevo preparato, fu catturato dalla più morbida e più dolce delle trappole, e fu portato via dagli animali. Cominciò a vivere nel mondo degli uomini civili.
Abisimti tagliò il proprio abito, vestì Enkidu con una metà e tenne l’altra per sé. Lo prese per mano e, come una madre, lo condusse dove si trovavano gli ovili, nelle vicinanze della città. I pastori gli si affollavano intorno: non avevano mai visto nessuno come lui. Quando gli offrirono del pane, egli non seppe che cosa farsene. Lo teneva in mano: lo guardava confuso, imbarazzato. Era abituato a mangiare solo erbe selvatiche e bacche, e a succhiare il latte delle bestie selvagge. Gli diedero del vino. Enkidu lo guardò stupito e, quando lo assaggiò, gli andò di traverso, e lo sputò.
Abisimti gli spiegò: «Questo è il pane, Enkidu: è il sostegno della vita, e questo è il vino. Mangia il pane, bevi il vino: è l’usanza del Paese.»
Con cautela mordicchiò il pane, con cautela sorseggiò il vino. La paura lo abbandonò, sorrise, mangiò con più piacere, si ingozzò di pane finché non fu sazio, bevve parecchi calici di vino forte. Il viso gli si colorì, il suo cuore esultò, saltellò, ballò una danza gioiosa. Poi lo presero e lo strigliarono, lo misero in ordine, lo unsero di oh e gli diedero abiti decenti, cosicché arrivò ad avere l’aspetto di un essere umano, sebbene fosse più alto del normale e più peloso.
Visse per qualche tempo tra i pastori. Non solo imparò a mangiare il cibo degli uomini, a bere le loro bevande e a indossare i loro vestiti; Enkidu imparò anche a lavorare come devono lavorare gli uomini. I pastori gli insegnarono ad usare le armi, ed Enkidu divenne il guardiano dei loro greggi. Di notte, mentre i pecorai dormivano tranquilli, pattugliava i campi per scacciare gli animali che andavano a fare razzie negli ovili. Cacciò leoni, catturò lupi, era il guardiano instancabile delle greggi, lui che era stato una belva selvaggia. Io non seppi nulla di tutto ciò. Confesso che avevo dimenticato completamente l’uomo selvaggio delle steppe, tanto ero impegnato nei compiti del regno e nei piaceri che alleviavano il mio dolore.