Un giorno Enkidu e Abisimti erano seduti nella taverna che i pastori erano soliti frequentare, quando entrò un viandante, un abitante di Uruk, e ordinò un boccale di birra. Lo straniero vide Absimti, la riconobbe, le fece un cenno di saluto e le disse: «Ritieniti fortunata di non vivere ad Uruk in questi giorni.»
«Perché, la vita nella città è così spiacevole?», chiese.
«Gilgamesh ci opprime,» disse lo straniero. «La città geme sotto il suo fardello. Non c’è nulla che plachi la sua forza… ci sfianca. E commette azioni turpi: il Re corrompe il Paese.»
Al che Enkidu alzò gli occhi e disse: «Com’è possibile? Spiegami che cosa vuoi dire.»
E lo straniero replicò: «Nella tua città c’è la Casa dell’assemblea, che è stata costruita per il popolo e serve a celebrare i matrimoni. Il Re non dovrebbe entrarvi, ma lo fa, anche quando rullano i tamburi nuziali. Egli prende la sposa, chiede di essere il primo con lei, prima del marito. Dice che questo diritto lo hanno stabilito gli Dei al momento della sua nascita, nel momento in cui fu tagliato il cordone che lo negava alla madre. Tutto questo è giusto? Tutto questo è santo? I tamburi nuziali rullano, ma poi compare Gilgamesh a reclamare la sposa. E tutta la città geme.»
Enkidu impallidì nel sentire queste parole, e fu preso da una grande ira.
«Non deve essere!», gridò. E ad Abisimti disse: «Vieni, portami ad Uruk: fammi vedere questo Gilgamesh!»
Abisimti ed Enkidu partirono subito per la città. Quando entrarono all’interno delle mura, lui suscitò un grande scalpore, tanto ampie erano le sue spalle, tanto potenti le sue braccia. La folla gli si raccolse intorno e, quando udì da Abisimti che quell’uomo era il famoso selvaggio che liberava gli animali dalle trappole, si fece più vicina, sussurrando, sgomitando. I più coraggiosi lo toccarono per sentire la sua forza.
«È pari a Gilgamesh!», gridò qualcuno.
«No, è più basso,» disse un altro.
E un terzo aggiunse: «Si, ma ha le spalle più ampie e le ossa più robuste.»
Ma a tutti dissero: «È arrivato un Eroe! È l’uomo che ha succhiato il latte dagli animali selvaggi! Finalmente Gilgamesh ha trovato chi gli sia alla pari! Finalmente! Finalmente!»
Enkidu era l’uomo la cui venuta mi era stata preannunciata in sogno. Era il compagno che gli Dei mi avevano offerto per alleviare la mia solitudine, il fratello che non avevo mai avuto, il compagno con cui avrei diviso tutto. Anche per il popolo di Uruk Enkidu era stato inviato dagli Dei ad esaudire loro preghiere, ma le loro ragioni erano diverse.
Perché era vero — sebbene non lo sapessi — che gemevano sotto il fardello del mio regno, come era vero che avevano timore delle mie energie prorompenti e mi detestavano per la mia arroganza. Perciò il popolo di Uruk aveva chiesto agli Dei di creare un mio simile e di mandarlo nella città: il mio doppio, con la mia età. Enkidu doveva affrontare la mia anima violenta con la sua anima violenta, in modo che combattessimo l’uno contro l’altro e lasciassimo Uruk in pace.
E quell’uomo era venuto.
19
Era il giorno delle nozze del Nobile Lugal-annemundu e di Ishara. I tamburi nuziali suonavano, e il letto nuziale era già stato approntato. Ishara mi piaceva, e all’imbrunire mi avviai verso la Casa dell’assemblea per portare la ragazza al palazzo.
Ma, mentre attraversavo il mercato, il Mercato-del-Paese, che si trova di fronte alla Casa dell’assemblea, una figura robusta uscì dall’ombra e mi si parò davanti. Era un uomo all’incirca della mia altezza, un paio di dita appena più basso di me. Non avevo mai visto nessun altro di quell’altezza: aveva un torace possente, le spalle ampie, più ampie perfino delle mie, e le braccia grosse quanto le gambe di un uomo normale.
Alla luce incerta delle torce dei miei servi, lo guardai attentamente in viso. Teneva il mento proteso orgogliosamente in avanti, la bocca era grande, le sopracciglia folte e scure, e i suoi occhi erano accesi d’ira e di violenza. Aveva una barba fitta, e i capelli ispidi. E quanto sembrava calmo, quanto sicuro di sé! Con quanta boria mi ostacolava il cammino! Non sapeva che io ero Gilgamesh il Re?
Dissi con calma: «Fatti da parte, amico.»
«No.»
Mi meravigliò sentire quel diniego. Non posso dire che ebbi paura, ma mi misi in guardia, perché capii che quell’uomo non poteva essere un normale cittadino. Le mie guardie del corpo si agitarono inquiete e cominciarono a tirare fuori le armi. Feci loro cenno di fermarsi. Avvicinatomi allo straniero, gli chiesi: «Mi conosci?»
«Penso che tu sia il Re.»
«Si. Non è prudente ostacolarmi il cammino.»
«E tu conosci me?», chiese. Aveva una voce rude e profonda, il suo accento era insolito.
Risposi: «Assolutamente no.»
«Sono Enkidu.»
«Ah, l’uomo selvaggio! Avrei dovuto sospettarlo. E così sei venuto ad Uruk? Ebbene, che cosa vuoi da me, uomo selvaggio? Questo non è il momento di presentare petizioni al tuo Re.»
In tono brusco mi chiese: «Dove stai andando, Gilgamesh?»
«Devo forse rendere conto a te di quello che faccio, adesso?»
«Dimmi dove stai andando.»
Le mie guardie del corpo si agitarono nuovamente. Penso che lo avrebbero trafitto volentieri con le lance, ma le trattenni.
Alquanto irritato, risposi, indicandogli la Casa dell’assemblea: «Laggiù. A partecipare ad una cerimonia nuziale. E tu mi farai arrivare in ritardo, uomo selvaggio.»
«Non puoi andarci,» disse. «Tu hai intenzione di prendere la sposa per te? Non puoi prenderla!»
«Io non posso? Io non posso? Che strane parole da dire ad un Re, uomo selvaggio!» Con una stretta nelle spalle dissi: «Non mi diverto più. Te lo ripeto: fatti da parte, amico.»
Avanzai. Ma, invece di cedermi il passo, allungò una gamba per ostacolarmi, e poi mi afferrò con le mani.
È punibile con la morte toccare il Re in una maniera simile. Non diedi, però, ai miei soldati la possibilità di abbatterlo. Non appena Enkidu mi toccò, fui preso da una rabbia terribile, e lo afferrai come se volessi lanciarlo dall’altra parte del mercato. Immediatamente ci avvinghiammo in un abbraccio violento, e i soldati non avrebbero potuto colpirlo senza ferire me; perciò indietreggiarono e ci lasciarono stare, non sapendo che cos’altro fare.
In quei primi momenti mi accorsi che aveva la mia stessa forza, o quasi. Era una sensazione nuova per me. Nella mia infanzia, nei giorni di addestramento militare a Kish, nelle chiassose risse con i giovani guerrieri della Corte dopo la mia salita al trono, avevo lottato spesso, per puro divertimento, e mi ero sempre accorto nei primi momenti che l’uomo con cui combattevo era alla mia mercé: avrei potuto atterrarlo quando avessi voluto.
Questo mi soddisfaceva solo quando ero bambino. Quando crebbi, me ne lamentavo, perché privava la lotta di ogni divertimento sapere che la vittoria era sempre a portata di mano, in ogni momento. Con Enkidu era diverso: non avevo nessuna certezza. Quando cercai di spostarlo, non si mosse. Quando lui cercò di spostarmi, dovetti usare tutta la mia forza per resistere. Mi sembrava di trovarmi in un altro mondo, un mondo strano, in cui Gilgamesh non era più Gilgamesh. La sensazione che avvertivo non era paura — non penso che fosse paura — ma qualcosa di altrettanto sconosciuto. Dubbio? Incertezza? Disagio?