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Lottammo come tori arrabbiati: sbuffavamo, oscillavamo in avanti e indietro, senza mai lasciare la presa l’uno sull’altro. Frantumammo gli stipiti delle porte e facemmo tremare le pareti degli edifici. Nessuno di noi due riusciva ad avere la meglio. Poiché era alto quasi quanto me, ci guardavamo negli occhi mentre lottavamo: i suoi occhi erano infossati e iniettati di sangue, e brillavano di una violenza selvaggia e stupefacente. Grugnivamo, barrivamo, ruggivamo. Io lo sfidai nella lingua di Uruk, nella lingua del popolo del deserto, e in tutte le altre lingue che riuscivo a ricordare. E Enkidu mormorava e gridava nella lingua degli animali, lanciando aspri ruggiti come i leoni delle pianure.

Desideravo ardentemente ucciderlo. Pregavo che mi fosse concesso spezzargli la schiena, sentire lo schiocco della sua spina dorsale che si rompeva, lanciarlo come una tunica vecchia tra le immondizie. L’odio che provavo mi dava le vertigini.

Dovete capire che nessuno mi si era mai opposto in quella maniera. Era come se una montagna fosse sorta nella notte per ostacolarmi il cammino. Che cosa avrei potuto sentire se non rabbia? Io che ero il Re, l’Eroe invincibile? Ma io non riuscivo a sconfiggerlo, e lui non riusciva a sconfiggere me. Non saprei dirvi per quanto tempo lottassimo e ci sforzassimo: ma la mia forza e la sua erano pari.

Ma io sono in parte divino, e Enkidu era solo mortale. Alla fine era inevitabile che avessi la meglio. Sentivo la mia forza durare, mentre la sua cominciava a venire meno. Infine piantai saldamente un piede a terra e piegai il ginocchio dell’altra gamba: in questo modo riuscii ad afferrarlo e a tirarlo, finché un piede gli scivolò e perse l’equilibrio.

In quel momento mi abbandonò ogni traccia di odio. Perché avrei dovuto odiarlo? Era splendido nella sua forza: era quasi mio pari. Così, come il fiume abbatte la diga, il mio amore per lui spazzò via tutta la mia rabbia. Era un amore così improvviso, così profondo, che mi travolse come i torrenti in piena della primavera e mi vinse completamente.

Mi rammentai del mio sogno: quella stella caduta dal cielo, che io non ero in grado di spostare. Nel sogno, avevo raccolto tutte le mie forze e con enorme fatica avevo sollevato la stella e l’avevo portata a mia madre, che mi aveva detto: «Questo è tuo fratello, questo è il tuo compagno.» Si. Non avevo mai conosciuto un uomo che fosse mio pari sotto tanti aspetti. Si adattava a me come se fossimo stati forgiati dallo stesso fabbro. In quel momento, mi sentii unito a lui, come se fossimo una sola carne in due corpi, a lungo divisa, ma ora finalmente riunita. Era questa la sensazione che avvertivo, mentre la mia forza veniva messa alla prova dalla sua. Era questo che ci era accaduto, mentre lottavamo.

Mi avvicinai ad Enkidu, lo alzai da terra e lo abbracciai una seconda volta, non per odio, ma per amore. Grandi singhiozzi mi scossero, e scossero anche Enkidu; perché entrambi capimmo nello stesso momento che cosa ci fosse capitato.

«Ah, Gilgamesh!», esclamò. «Non c’è nessun altro come te in tutto il mondo! Gloria alla madre che ti partorì!»

«C’è un altro come me,» dissi, «ma solo uno.»

«No, non c’è: perché Enlil e te ha dato il regno.»

«Ma tu sei mio fratello,» dissi.

Mi guardò con un’espressione confusa, come se fosse stato risvegliato all’improvviso dal sonno.

«Io sono venuto qui per farti male.»

«Anch’io lo desideravo. Quando ti ho visto bloccarmi la strada, ho desiderato spezzarti in due e gettare via le due metà come ossa rosicchiate.»

Enkidu scoppiò a ridere.

«Non ci saresti riuscito, Gilgamesh!»

«No. Non ci sarei riuscito. Ma avevo intenzione di tentare.»

«E io avevo l’intenzione di buttarti a terra. Ci sarei riuscito, se la fortuna fosse stata dalla mia parte.»

«Si,» dissi. «Penso che ci saresti riuscito. Tenta di nuovo, se ne hai voglia. Io sono pronto.»

«Enkidu scosse il capo.

«No. Se ti avessi buttato a terra, se ti avessi fatto del male, ti avrei perso. Sarei restato di nuovo solo. No, preferisco averti come amico che come nemico. Questa è la parola che volevo dire. Amico. Amico. Non è questa la parola?»

«Un amico, si. Siamo troppo simili per essere nemici.»

«Ah,» disse Enkidu, accigliandosi. «Siamo simili? Com’è possibile? Tu sei il Re, e io sono solo… io sono…» Gli mancarono le parole. «Un guardiano di pecore è tutto quello che sono.»

«No. Tu sei l’amico del Re. Il fratello del Re.»

Non avrei mai creduto che sarei riuscito a dire queste parole a qualcuno. Eppure sapevo che erano vere.

«È vero?», chiese. «Non lotteremo più, allora?»

Con una smorfia dissi: «È naturale che lotteremo! Ma lotteremo come lottano i fratelli. Eh, Enkidu?» E lo presi per mano. Avevo dimenticato le nozze, avevo dimenticato Ishara. «Vieni con me, Enkidu. Andiamo da mia madre, la Sacerdotessa di An. Voglio che conosca l’altro dei suoi figli. Vieni, Enkidu. Vieni subito!»

«E andammo al Tempio del Padre del Cielo, dove ci inginocchiammo nel buio davanti a Ninsun: fu molto strano e meraviglioso per entrambi. Avevo pensato che la solitudine mi avrebbe accompagnato per sempre, e invece ora se n’era andata, all’improvviso, era svanita come un ladro nella notte al momento dell’arrivo di Enkidu.

Era l’inizio di una grande amicizia, di cui non avevo mai conosciuto l’uguale, e che non conoscerò mai più. Era la mia metà, riempiva un posto in me che era stato sempre vuoto.

Si è mormorato che fossimo amanti, così come lo sono gli uomini e le donne. Non vorrei che voi lo credeste. Non era affatto così. So che ci sono certi uomini in cui gli Dei hanno mescolato virilità e femminilità, cosicché essi non hanno desiderio per le donne, ma io non sono uno di loro, né lo era Enkidu. Per me, l’unione con la donna è un’esperienza grande e sacra, che un uomo non può vivere con un altro uomo: dicono di viverla, quegli uomini, ma io penso che si ingannino. Non è la vera unione. Io ho avuto quell’unione, nel Matrimonio Sacro con la Sacerdotessa Inanna, in cui si incarna la Dea. Anche Inanna è una mia metà, sebbene sia una metà oscura e turbata. Ma un uomo può avere molte metà, almeno così credo, e può amare un altro uomo in una maniera che è completamente diversa da quella in cui ama una donna.

Quel genere d’amore che esiste tra uomo e uomo esisteva tra Enkidu e me. Nacque mentre lottavamo, e non svanì mai più. Non ne parlavamo mai l’uno con l’altro. Non avevamo bisogno di parlarne. Ma sapevamo che esisteva. Eravamo una sola anima in due corpi. Non avevamo bisogno di dare voce ai nostri pensieri, perché li intuivamo l’uno nell’altro. Eravamo complementari. C’è un Dio dentro di me, c’era la terra dentro di lui. Io sono sceso sulla terra dal cielo, Enkidu era salito sulla terra degli Inferi. Il nostro punto di incontro fu il mondo degli uomini mortali, che si trova tra gli altri due mondi.

Gli assegnai, nel palazzo, il grande appartamento dalle pareti bianche che affaccia a sudovest, prima riservato ai governatori e ai Re delle altre città in visita da Uruk. Gli fornii tuniche di finissimo legno bianco e di lana, gli diedi delle ancelle che lo lavassero e lo ungessero di olii, poi gli mandai i miei barbieri e i miei medici a raderlo e a liberarlo delle ultime tracce della sua precedente vita selvaggia. Svegliai in lui l’amore per la carni arrostite, per i vini dolci e forti e per la birra saporita e spumeggiante. Gli regalai pelli di leopardo e di leone perché adornasse il suo corpo e le sue stanze. Divisi con lui tutte le mie concubine, senza tenerne nemmeno una sola per me. Gli feci incidere uno scudo di bronzo con scene delle campagne militari di Lugalbanda. Gli diedi una spada che splendeva come l’occhio del sole, un elmetto rosso e dorato, riccamente ornato, e delle lance dal bilanciamento perfetto. Gli insegnai a guidare il carro e a lanciare il giavellotto.