Sebbene nel suo animo restasse sempre qualcosa di rude e di grossolano, ciò non di meno Enkidu assunse rapidamente l’aspetto esteriore e le maniere di un Nobile della Corte, dignitoso, raffinato, bello. Cercai perfino di insegnargli a leggere e a scrivere, ma si rifiutò di imparare. Ci sono molti grandi uomini della Corte, però, che non conoscono quest’arte, pochi che la posseggono.
Se qualcuno era geloso di lui, io non me ne accorsi mai. Forse c’era qualcuno del circolo più interno di eroi e guerrieri che diceva con amarezza alle nostre spalle: «Quel selvaggio è il favorito del Re. Perché è stato scelto lui, e non io?» Ma se lo facevano, nascondevano molto bene i loro cipigli e i loro borbottii.
Io preferisco pensare che non esistessero questi sentimenti di invidia. Enkidu non aveva rimpiazzato nessun favorito. Non avevo mai avuto un favorito, non lo erano nemmeno i miei vecchi compagni di scuola Bir-hurturre e Zabardi-bunugga. Non avevo mai permesso a nessuno di avvicinarsi tanto. Si accorsero subito che l’amicizia con Enkidu era completamente diversa da tutto quello che avevo vissuto con loro, proprio come la sua forza era completamente diversa dalla loro. Non c’era nessuno come lui in tutto il mondo, e non c’era niente come la nostra amicizia.
Gli diedi la confidenza più completa. Mi aprii a lui in ogni mio aspetto. Gli permisi perfino di guardarmi quando suonavo il tamburo, ricavato dal ramo dell’albero di huluppu, in quel modo particolare che mi faceva cadere in trance. Si accoccolava accanto a me mentre io scomparivo in quell’altro regno di luce blu; e, quando ne uscivo, mi ritrovavo con la testa appoggiata sulle sue ginocchia.
Mi fissava come se avesse visto il Dio uscire da me: mi toccava gli zigomi, e faceva il Segno Santo con la punta delle dita. «Mi puoi insegnare ad andare in quel luogo?», mi chiedeva. E io rispondevo: «Certamente, Enkidu,» ma non ci riusciva mai, quantunque tentasse. Penso che dipendesse dal fatto che Enkidu non era stato toccato interiormente dal Dio, come ero stato toccato io. Non aveva mai avvertito il frullare delle grandi ah nella sua anima, non aveva mai sentito il ronzio, non aveva mai visto l’aura crepitante: tutti segni che indicano che si è posseduti da un Dio. Ma spesso gli permettevo di starmi accanto mentre battevo il tamburo, e lui mi guardava rotolare lungo il pavimento e agitare le braccia e le mani nell’incanto dell’estasi.
Quando c’era del lavoro da fare, come la costruzione di canali, il rafforzamento delle mura, o qualsiasi altro lavoro gli Dei mi assegnassero, Enkidu era sempre al mio fianco. Durante i riti stava vicino a me, mi porgeva i vasi sacri, oppure alzava sull’altare i buoi e le pecore sacrificali con la stessa facilità con cui un altro avrebbe sollevato degli uccellini. Quando era la stagione della caccia, cacciavamo insieme, e in quest’attività mi era superiore, visto che conosceva gli animali selvaggi intimamente. Rovesciava il capo all’indietro, annusava l’aria e diceva, indicando: «In quella direzione c’è un leone. In quella c’è un elefante.» Non si sbagliava mai.
Andavamo spesso nelle paludi, nelle steppe, o negli altri luoghi in cui vivono gli animali selvaggi, e non ce ne scappava nemmeno uno. Insieme uccidemmo tre robusti elefanti nella grande ansa del fiume, portammo le pelli e le zanne ad Uruk e le appendemmo alla facciata del palazzo per mostrarle al popolo. Un’altra volta, Enkidu scavò una buca e la coprì con dei rami. In questo modo catturammo un elefante vivo e lo portammo in città, dove restò rinchiuso in un recinto a barrire e soffiare per tutto l’inverno finché non l’offrimmo ad Enlil. Cacciammo con il nostro carro le due specie di leoni, quelli con la criniera nera e quelli senza criniera. Enkidu, come me, lanciava i giavellotti con la stessa precisione sia con la mano destra che con la sinistra. Ve lo ripeto, eravamo due corpi e un’anima.
Enkidu era diverso da me, naturalmente, sotto molti aspetti. Rumoroso e chiassoso, soprattutto quando aveva bevuto troppo vino, aveva un senso dell’umorismo piuttosto insulso, e rideva fragorosamente di battute di spirito che avrebbero fatto arricciare il naso per il disgusto ad un bambino. In fin dei conti, era cresciuto tra gli animali. Aveva una dignità, una dignità naturale che non era quella di una persona cresciuta in un palazzo con un Re per padre.
Era un bene per me avere Enkidu accanto che rideva e faceva baccano, perché io sono troppo serio, e lui allietava le mie giornate, non come fa un giullare con buffonerie attentamente; studiate, ma in un modo naturale e disinvolto, come una folata di vento fresco e frizzante in un giorno afoso e soffocante.
Parlava con l’onestà più assoluta. Quando lo portai nel Tempio di Enmerkar, pensando che sarebbe stato sopraffatto dalla sua bellezza e dalla sua maestosità, disse all’improvviso: «È piccolo e brutto, non è vero?»
Non me lo aspettavo. Dopodiché, cominciai a vedere il grande Tempio di mio nonno attraverso gli occhi di Enkidu, e anche a me apparve piccolo, brutto, vecchio e bisognoso di urgenti riparazioni. Invece di ripararlo, lo distrussi e ne costruii uno nuovo e splendido, cinque volte più grande, sulla sommità della Piattaforma Bianca: è il Tempio che vi sorge ancora oggi e che farà durare la mia fama per migliaia d’anni a venire.
Ebbi qualche piccolo problema con la Sacerdotessa Inanna, quando abbattei il Tempio di Enmerkar. Le dissi che cosa avevo intenzione di fare: lei mi guardò come se avessi sputo sugli altari e disse: «Ma è il più grande di tutti i Templi!»
«Anche quello che sorgeva al suo posto, il Tempio di Mekiaggasher, era il Tempio più grande di tutti ai suoi tempi. Oggi nessuno lo ricorda. È nella natura dei Re sostituire i Templi con Templi più grandi. Enmerkar costruì bene, ma io costruirò meglio.»
Mi guardò con espressione torva e truce.
«E dove vivrà la Dea, mentre tu costruirai il tuo Tempio?»
«La Dea vive ovunque ad Uruk. Vivrà in ogni casa, in ogni strada e nell’aria che ci circonda, come ora.»
Inanna era furiosa. Convocò l’assemblea degli anziani e la Casa degli Uomini per dichiarare la propria protesta; ma nessuno poté impedirmi di costruire il Tempio. È prerogativa del Re accrescere la grandezza della Dea offrendole dei Templi.
Così abbattemmo il Tempio di Enmerkar, fino alle fondamenta, benché lasciassimo intatte quelle antiche gallerie sotterranee, abitate dai Demoni, che si trovavano al di sotto: non volevo avere a che fare con quelle creature. Feci arrivare blocchi di pietra calcarea dalla regione delle pietre calcaree perché servissero da fondamenta al mio Tempio, e le gettai ad una profondità e con un’ampiezza che nessuno aveva mai immaginato prima di allora. I cittadini trattennero il fiato per la sorpresa quando vennero a vedere le nuove fondamenta e compresero la lunghezza e l’ampiezza della costruzione che avevo intenzione di erigere.
Nella costruzione del nuovo Tempio feci uso di tutto quello che aveva appreso. Elevai l’altezza della Piattaforma Bianca finché non arrivò quasi al cielo, e feci costruire il mio Tempio sulla sua sommità, come i Templi di Kish. Eressi delle mura di uno spessore che nessuno aveva mai immaginato fino ad allora, e le feci sostenere da colonne immense, robuste quanto le gambe degli Dei.
Per adornare le pareti e le colonne, inventai un nuovo ornamento, così bello che potrei essere ricordato solo per quello, anche se tutte le mie altre opere fossero dimenticate. Consisteva nel premere migliaia di coni di terracotta dalla lunga punta, nel’intonaco di fango che copriva le pareti e le colonne, prima che questo si fosse indurito. Solo le punte di questi coni restavano visibili, e venivano dipinte di rosso, di giallo o di nero, e messe l’una sull’altra in modo da formare vertiginosi disegni colorati in diagonale, in zigzag, in losanghe e in triangoli. Il risultato è che, dovunque l’occhio si posi all’interno del mio Tempio, è deliziato dalla sua vivacità e complessità: sembra di vedere un vasto arazzo, intessuto non di lane colorate ma con un numero infinito di piccoli elementi di argilla colorata.