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Enkidu pensava che anche il piccolo santuario di Lugalbanda, che Dumuzi aveva eretto anni prima accanto alle caserme nel Quartiere del Leone, non fosse degno di mio padre. Fui d’accordo: abbattei il piccolo santuario e ne costruii uno molto più adeguato, con archi e pilastri di grandi dimensioni, tutti coperti delle mie decorazioni a forma di cono, dipinte di colori vivaci.

Al centro dell’edificio, posi la vecchia statua di Lugalbanda che Dumuzi aveva fatto scolpire in pietra nera, perché era un ritratto veramente nobile, e non avrei mai messo da parte a cuor leggero un oggetto fatto di un materiale raro come la pietra nera. Ma circondai la statua di torce montate su treppiedi e poste davanti a specchi di rame lucente, cosicché una luce abbagliante riempiva il Tempio in ogni momento. Dipingemmo su tutte le pareti leopardi e tori, in segno di omaggio a Enlil delle Tempeste, che Lugalbanda amava. Durante la cerimonia di inaugurazione, versai il sangue di leoni e di elefanti sulle mattonelle del Tempio. Qualcuno oserebbe dire che Lugalbanda meritasse di meno?

Non ci furono guerre in quegli anni. Gli Elamiti erano tranquilli, i martu del deserto andavano altrove per le loro scorrerie, la caduta della casata di Agga di Kish aveva eliminato una minaccia potente dai nostri confini settentrionali. Che il Re di Ur si fosse nominato Re di Kish, non mi turbava; Ur e Kish sono molto lontane, e non vedevo in che modo potesse unire il potere delle due città contro di noi. Perciò vivevamo una vita calma ad Uruk, ci arricchivamo nella pace, e accrescevamo i nostri beni con i commerci invece di andare in cerca di bottoni di guerra.

In quegli anni, dietro mia richiesta, i mercanti e gli emissari di Uruk andarono ovunque, per accrescere lo splendore della città. Dalle montagne orientali portarono tronchi di legno di cedro lunghi cinquanta e anche sessanta cubiti, e ceppi di legno di urkarinnu della lunghezza di venticinque cubiti, che usammo per fare le travi nel nuovo Tempio. Dalla città di Ursu, sulla montagna di Ibla, presero legno di zabalu, grandi tronchi di legno di ashukhu, e legname di platano. Da limami, una montagna della regione di Menua, e da Basalla, una montagna della regione di Armimi, i miei invitati tornarono con grandi blocchi della rara Pietra Nera, nella quale gli artigiani scolpirono nuove statue degli Dei per tutti i Templi più vecchi.

Importai rame da Kagalad, una montagna della regione di Kimash, e con le mie mani ne ricavai una grande testa per una mazzuola. Da Gubin, la montagna degli alberi di huluppu, portai legno di huluppu e da Magda venne l’asfalto da usare per la piattaforma del Tempio. Dalla montagna di Barshib presi blocchi della sontuosa pietra nalua e li portai in nave fino ad Uruk. Progettai di mandare spedizioni ancora più lontano: a Magan, a Meluhha, a Dilmun.

La città prosperava, e ogni giorno il suo splendore si accresceva. Presi una moglie, e lei mi diede un figlio, poi presi una seconda moglie, come era mio diritto. C’era la pace. La notte dell’anno nuovo andavo al Tempio che avevo costruito, e giacevo con l’ardente Inanna nel rito del Matrimonio Sacro: ogni anno mi stringeva a sé con più violenza, e il suo corpo si muoveva con più abbandono, quando in una sola notte soddisfaceva i desideri di un anno intero.

Avevo l’amore di Enkidu a sostenermi quotidianamente. Il vino scorreva abbondante, il fumo della carne arrostita si innalzava tutti i giorni verso il cielo, in offerta agli Dei, e tutto andava bene. Pensavo che il mio regno sarebbe andato avanti in questo modo per sempre. Ma gli Dei non concedono una simile pace per sempre: è già un miracolo quando la concedono.

20

Un giorno incontrai Enkidu e lo trovai di umore tetro e depresso. Era accigliato, sospirava, ed era prossimo alle lacrime. Gli chiesi che cosa lo turbasse, sebbene fossi sicuro di saperlo. Il mio amico rispose: «Penserai che sono uno stupido, se te lo dirò.»

«Forse lo penserò, ma che cosa importa? Su, parla.»

«È una sciocchezza, Gilgamesh!»

«Non credo,» dissi. Gli diedi un’occhiata attenta e continuai: «Lascia che indovini. Ti sei stancato della nostra vita civile e comoda, non è vero? Sei stufo di oziare negli agi.»

Arrossì e replicò, sorpreso: «Per tutti gli Dei, come fai a saperlo?»

«Non ci vuole un grande intuito per capirlo, Enkidu.»

«Non vorrei che tu pensassi che desidero tornare alla mia vecchia vita per correre nudo per la steppa.»

«No. Dubito che tu lo desideri.»

«Ti voglio dire la verità: sto diventando un rammollito qui, e sto perdendo le forze. Ho le braccia flosce e il fiato corto.»

«E le battute di caccia che facciamo? E i tornei che giochiamo insieme? Non ti bastano, Enkidu?»

A voce bassissima, appena percettibile, disse: «Mi vergogno di dirlo, ma non mi bastano.»

Gli misi una mano sul braccio.

«Beh, non bastano nemmeno a me.»

Batté gli occhi per la sorpresa.

«Che cosa stai dicendo?»

«Che sento la tua stessa irrequietezza. Il mio regno mi lega e mi limita. La tranquillità che mi sono sforzato di dare alla città mi è diventata nemica, e il mio animo è turbato come il tuo. Desidero quanto te l’avventura, Enkidu: il pericolo, delle imprese eroiche che renderanno famoso il mio nome. Mi annoio qui. Ho voglia di partire per un grande viaggio.»

Era vero. Tutto era così sereno ad Uruk, che essere Re non mi sembrava molto diverso dall’essere bottegaio. Non potevo accettare un destino da bottegaio, perché gli Dei mi avevano reso in parte divino, e la mia parte divina è sempre desta, sempre alla ricerca di qualcosa, sempre insoddisfatta. Questo è lo scherzo che mi hanno giocato gli Dei: bramo la pace ma non sono soddisfatto quando la ottengo. Ma penso di aver risolto l’enigma di questo scherzo degli Dei, come vi spiegherò a tempo debito.

«Ah, è così?», disse. «Soffri con me?»

«Esattamente come te.»

Enkidu scoppiò a ridere.

«Sembriamo due bambini troppo cresciuti, che si guardano intorno alla ricerca di nuove distrazioni. Ma che cosa faremo Gilgamesh? Dove possiamo andare?»

Gli lanciai un’occhiata penetrante. Lentamente dissi: «C’è un luogo che si chiama la Terra dei Cedri. Da qualche tempo penso di intraprendere una spedizione da quelle parti.» Non era vero: l’idea mi era venuta in mente in quel momento. «Ne hai mai sentito parlare, Enkidu?»

Aggrottò la fronte e, in tono alquanto oscuro e tetro, disse: «Ne ho sentito parlare, si.»

«Pensi che ti gioverebbe andarvi insieme a me?»

Si inumidì le labbra.

«Perché proprio là?»

«Abbiamo bisogno di cedri. È un bosco splendido. Nel paese non c’è nemmeno un cedro.»

Non lo stavo ingannando: era vero. Ma avevo scelto la Terra dei Cedri anche per la sua aria fresca e tonificante, che credevo avrebbe fatto passare la malinconia ad Enkidu. E, soprattutto, mi era arrivata la notizia che gli Elamiti accampavano diritti su tutta la terra che si trovava intorno alla foresta di cedri. Non potevo permetterlo.

«Ci sono altri luoghi dove puoi prendere dei cedri.»

«Forse. Ma ho intenzione di andare nella Terra dei Cedri a prenderli. Si dice che sia una regione meravigliosa, elevata, verde e fresca, molto bella.»

«E molto pericolosa,» disse Enkidu.

«Davvero?» Mi strinsi nelle spalle. «Ancora meglio! Non avevi detto che stavi diventando irrequieto ad oziare in questi agi, che avevi desiderio di avventura, di pericoli…»

Il mio amico disse, con un’espressione imbarazzata che non gli avevo mai visto: «Forse mi offri più di quanto ho chiesto.»

«Che cosa? Troppo pericolo, è così? Queste parole sono uscite dalla bocca di Enkidu? Non avrei mai pensato di sentirti parlare da vigliacco.»