Radunammo le nostre asce più belle, i nostri archi, le nostre lance. Prima ancora del giorno della partenza, sentivo la canzone della guerra ronzarmi nelle orecchie. Era molto tempo che non la sentivo, e mi sembrò di tornare adolescente, quando sentii il sangue scorrermi caldo e rinvigorito nelle vene.
Naturalmente gli anziani erano contrari. Formarono una delegazione sul molo e marciarono verso la città, ed entrarono attraverso la Porta delle Sette Frecce, cantando le preghiere con i volti tristi. La gente si raccolse intorno agli anziani nel Mercato-del-Paese e tutti cominciarono a cantare e a lamentarsi.
Capii che sarebbero sorti dei problemi, perciò andai al mercato e mi presentai agli anziani.
Non era difficile prevedere che cosa avrebbero detto: «Sei ancora giovane, Gilgamesh, il tuo coraggio è più grande della tua prudenza, il tuo cuore ti spinge ad un’impresa avventata. Stai per prendere una strada che non hai mai percorso, e ti smarrirai. Sei forte, ma non potrai sconfiggere Huwawa. È un essere mostruoso, il suo ruggito è simile all’impeto delle tempeste, la sua bocca è fuoco, il suo alito è l’alito della morte.» E così via, su questo tono.
E fu precisamente quanto dissero. Li sentii fino alla fine, poi replicai, con un sorriso, che avrei chiesto la protezione degli Dei e che credevo che gli Dei mi avrebbero protetto, come avevano sempre fatto nel passato. «È una strada che no ho mai percorso, lo ammetto,» dissi, «ma partirò senza timore. Partirò con il cuore colmo di gioia.»
Quando videro che non avrei cambiato idea, cambiarono tono. Mi dissero di non fidarmi troppo della mia forza. «Fa’ andare avanti Enkidu,» dissero. «Sarà Enkidu a fare strada, sarà lui a proteggere il Re.»
Ascoltai con calma questo consiglio, sorridendo ancora, senza cominciare nessuna polemica con loro. Mi dissero anche di affidarmi alla misericordia di Utu, che è il Dio che protegge le persone in pericolo, e io giurai che sarei andato quel giorno stesso al Tempio degli Utu e gli avrei offerto due capretti, uno bianco e immacolato e l’altro scuro. Avrei implorato il suo aiuto, e gli avrei promesso preghiere e doni se mi avesse concesso di tornare sano e salvo. E, durante il viaggio verso la Terra dei Cedri, e avrei compiuto i vari riti e le varie cerimonie, per preservarmi da ogni male. Feci tutte queste promesse con grande sincerità. Dopotutto, non ero ignaro dei pericoli.
Quando gli anziani ebbero terminato di affliggermi, fu la volta della Sacerdotessa Inanna, che mi convocò al Tempio che avevo costruito per lei e mi disse in tono irato: «Che cosa significa questa follia, Gilgamesh? Dove hai intenzione di andare?»
«Sei forse mia madre, per parlarmi in questo modo?»
«Non sarebbe possibile. Ma tu sei il Re di Uruk e, se morirai in questa avventura, chi ti succederà al trono?»
Mi strinsi nelle spalle e le dissi: «Tocca alla Dea deciderlo, non a me. Ma non avere timore, Inanna. Non morirò in questo viaggio.»
«E se morirai?»
«Non morirò,» dissi di nuovo.
«È così importante correre questo rischio?»
«Dobbiamo avere i cedri.»
«Manda i tuoi soldati, allora, a lottare contro i Demoni.»
«Ah, e vorresti che dicessi loro che ho paura di Huwawa e che li mando al mio posto, mentre io resto comodamente a casa? Io andrò, Inanna. È deciso.»
Mi guardò con rabbia. Avvertivo, come sempre, il potere della sua bellezza, che era allora nel suo pieno rigoglio. E sentivo anche la forza del suo amore per me, che bruciava dentro di lei come un fuoco fin da quando eravamo bambini. Ma sentivo anche la rabbia che provava verso di me, perché non poteva soddisfare quell’amore come lo soddisfano di solito gli uomini e le donne.
Pensai anche a quelle notti, una volta all’anno, in cui io e lei ci stendevamo sul letto della Dea. Quelle notti in cui lei era nuda tra le mie braccia con il petto che le si sollevava, le gambe aperte, e le dita che mi artigliavano la pelle della schiena. E mi chiesi se sarei vissuto per abbracciarla di nuovo in quel modo. Perché anche in me c’era amore per lei, sebbene il mio amore fosse sempre mescolato ad una certa diffidenza e ad una profonda paura dei suoi stratagemmi. Restammo in silenzio per qualche attimo, poi lei disse: «Farò delle offerte per la tua salvezza. E ora va’ da tua madre, la vecchia Regina, e chiedile di fare lo stesso.»
«Era mia intenzione andare da lei subito dopo,» dissi.
Era vero. Enkidu ed io attraversammo la città per andare dalla saggia Ninsun. Mi inginocchiai davanti a mia madre e le dissi che stavo per intraprendere una strada incerta, con una strana battaglia da combattere. Lei sospirò, e chiese perché gli Dei, dopo averle dato Gilgamesh per figlio, lo avessero dotato di un cuore così irrequieto. Ma non fece nessun tentativo di dissuadermi dal partire. Invece, si alzò, si avvolse nel santo mantello cremisi, indossò il pettorale d’oro, le collane di lapislazzuli e cornaline, mise la tiara sulla testa e andò all’altare di Utu, che si trovava sul tetto della sua casa.
Accese l’incenso per il Dio, gli parlò per qualche tempo, poi tornò da noi, si rivolse ad Enkidu e gli disse: «Tu non sei figlio della mia carne, forte Enkidu, ma ti adotto come figlio. Davanti a tutte le mie Sacerdotesse e ai miei fedeli, io ti adotto.» Appese un amuleto al collo di Enkidu, lo abbracciò e concluse: «Te l’affido. Custodiscilo. Proteggilo. Riportamelo sano e salvo. È il Re, Enkidu. Ed è mio figlio.»
Finalmente le preghiere e le discussioni finirono, e io partii con i miei uomini dalla città di Uruk verso la Terra dei Cedri.
21
Uscimmo rapidamente dalle calde pianure, lasciando alle spalle i boschetti di palme da datteri e il seno d’oro del deserto, e salimmo verso l’altipiano fresco e verde, che si trova ad oriente. Viaggiammo a marce forzate, dall’alba al tramonto, attraversando sette montagne una dopo l’altra senza mai fermarci, finché alla fine vedemmo davanti a noi le foreste di cedri: innumerevoli legioni di alberi schierati lungo i pendii dell’aspra terra che ci era davanti. Era strano per noi vedere tanti alberi, visto che il Paese ne aveva pochissimi. Rendevano quasi nere le colline frastagliate, e somigliavano ad un’armata ostile che aspettasse con calma il nostro attacco.
Si notava un’altra stranezza su quelle creste zannute e in quelle gole rocciose: le fiamme degli Dei esiliati e dei Demoni che uscivano tra le pietre, e le loro esplosioni dense e nere che rotolavano verso di noi, simili a viscidi serpenti degli Inferi. Stavamo per entrare nella regione che si chiama Terre dei Ribelli, nella quale furono esiliati gli Dei che si opposero a Enlil. In queste terre i guerrieri vittoriosi, Enlil, Ninurta e Ningirsu, esiliarono i propri nemici dopo quella grande battaglia tra Dei avvenuta tanto tempo fa. E in quella regione, gli Dei sconfitti ancora infuriano, rombano, gemono e scuotono la terra. Ancora provocano grandi esplosioni di fumo e fuoco e fanno uscire dalle profondità della terra i loro serpenti neri.
Ad ogni passo, penetravamo sempre di più in quell’oscuro regno, consapevoli che in ogni momento quelle divinità sinistre, dagli occhi rossi e irati, sbuffavano e soffiavano sotto i nostri piedi.
Eppure non ci lasciammo prendere dalla paura. Ci fermammo a tempo debito a compiere i riti dovuti a Utu, An, Enlil, Inanna. Quando ci accampavamo per la notte, scavavamo dei pozzi e facevamo salire in superficie le acque per offrirle agli Dei. Alla fine, prima di dormire, io invocavo Lugalbanda e mi consigliavo con lui, perché da giovane era stato in quelle terre, e aveva sofferto molto per i fumi nocivi e per le esplosioni degli Dei ribelli. La sua presenza mi era di grande conforto.
Enkidu conosceva bene quella zona. Grazie ai ricordi della sua vita selvaggia, ci guidò senza mai sbagliare per sentieri impervi e infiniti. Ci fece aggirare luoghi che erano stati bruciati e anneriti dal fiato bollente di spiriti pericolosi. Ci fece oltrepassare regioni in cui la terra era sprofondata, si era spaccata, e si era alzata. Ci portò oltre laghi neri, profondi e viscidi, che si erano formati nel seno della terra. Ci avvicinavamo sempre di più al cuore della foresta, al dominio del Demone Huwawa.