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Poi arrivammo alla prima fila di cedri. Se fossimo arrivati in quella regione solo per la legna, credo che avremmo potuto tagliare venti o sessanta di quegli alberi e ritornare felici ad Uruk, proclamando il nostro trionfo. Ma noi non eravamo arrivati fin lì solo per la legna.

Enkidu disse: «C’è una grande porta nelle vicinanze, che protegge i boschetti sacri. Siamo molto vicini.»

«E Huwawa?», chiesi.

«Sta all’altra parte della porta, non molto lontano.»

Lo guardai con attenzione. La sua voce era forte e ferma, ma non mi sentivo ancora sicuro del suo coraggio. Non avevo alcun desiderio di ferire il suo orgoglio, ma dopo un attimo gli chiesi: «Finora va tutto bene, Enkidu?»

Sorrise e rispose: «Sono pallido, Mi vedi tremare di paura, Gilgamesh?»

«Ad Uruk ti ho sentito parlare con grande rispetto di Huwawa. Hai detto che non c’è modo di sfuggirgli. È mostruoso oltre ogni dire, hai detto. Quando ruggì, pensasti che saresti morto di paura. Sei stato tu a dire queste cose.»

Enkidu si strinse nelle spalle.

«Ho detto queste cose ad Uruk, forse. Nelle città gli uomini diventano molli. Qui sento ritornare le mie forze. Non c’è nulla da temere, amico mio. Seguimi: io so dove sta Huwawa, e so quali sentieri percorre.» Poi mi posò una mano sul braccio stringendomelo, e mi prese sottobraccio.

Il giorno dopo, arrivammo alle mura della foresta e alla grande porta.

Avevo riflettuto sulla questione di quelle mura fin da quando Enkidu me ne aveva parlato la prima volta. La Terra dei Cedri si trova in una zona di confine disabitata che è situata tra il Paese e la terra degli Elamiti. La proprietà di quella regione è in discussione fin dai giorni di Meskiaggasher, il primo Re di Uruk.

Poiché è un territorio che non si può coltivare, non abbiamo mai tentato di prenderne formalmente possesso ma, ogniqualvolta abbiamo bisogno di legno di cedro, ci siamo andati liberamente e ne abbiamo preso quanto ne volevamo. Era una faccenda seria se qualcuno si era messo a costruire mura nella foresta. Una cosa è quando Enlil decide di mettere un terribile demone-fuoco a guardia dei suoi cedri: io non ho nulla da ridire sulle decisioni di Enlil. Ma non potevo tollerare che un Re elamita dalla barba nera costruisse delle mura per attribuire il possesso di tutta la foresta ai suoi sudditi straccioni e sporchi.

Nel momento in cui vidi le mura, capii che erano stati gli Elamiti, e non Huwawa o un altro spirito, a costruirle. Si vedeva che erano state costruite da uomini, e nemmeno da uomini molto abili. Tronchi di cedro, rozzamente tagliati e legati malamente con vimini, erano ammassati alla rinfusa lungo un sentiero, aperto grossolanamente, che si allungava in entrambe le direzioni, fin dove arrivava lo sguardo. L’interno dei tronchi era visibile, come se le assi fossero state scortecciate invece che piallate. Fui preso dalla rabbia alla vista di quella muraglia goffa ed enorme. Rivolsi lo sguardo ai miei uomini e dissi: «Allora, abbattiamo questa cosa ed entriamo nella foresta?»

«Dovresti dare prima un’occhiata alla porta,» disse Enkidu.

La porta si trovava a mezzo lega di distanza, in direzione sud. Prima ancora di arrivarci, rimasi senza fiato per la sorpresa. Si alzava al di sopra delle mura, era più una torre che una porta, ed era superba da ogni punto di vista. Quella porta non avrebbe fatto disonore alle mura di Uruk. Anch’essa era di cedro, tagliato dalla mano di un maestro, ed era montata e collegata con grande abilità. Il perno e l’asta erano meravigliosamente levigati e il grande stipite si adattava in modo superbo.

«Una porta degli Dei!», gridò Bir-hurturre. «Una porta costruita da Enlil!»

«Una porta che nessun Elamita avrebbe potuto fabbricare, ad ogni modo,» dissi io, e mi avvicinai per esaminarla.

Era veramente perfetta. Non solo era costruita senza difetti, ma era anche ornata magnificamente: nel legno stagionato erano scolpiti mostri e serpenti, Dei e Dee, nei tipici disegni elamiti che ricordavo di aver visto sugli scudi dei guerrieri che avevo ucciso durante le campagne per Agga.

Sulla parte superiore della porta erano montate tre corna enormi, molto simili alle corna massicce che gli Elamiti scolpiscono e mettono sulle facciate dei Templi. E lungo i lati, sul muro, erano incise delle iscrizioni nella barbara scrittura elamita, che è una copia goffa della nostra: immagini di animali, vasi, giare, stelle, montagne e molte altre cose, ammucchiate in una dichiarazione che per me era indecifrabile. Le incisioni erano realizzate con grazia, ma sembrava una maniera assurda di scrivere, quell’ammucchiare immagini.

Poi vidi una cosa che mi fece adirare, in basso, sul lato sinistro della porta. Era un’iscrizione nei caratteri cuneiformi del Paese, che, in modo chiaro e preciso, diceva, Utu-ragaba il grande artigiano di Nippur costruì questa porta per Zinuba Re dei Re, Re di Hatamti.

«Ah, il traditore!», esclamai. «Sarebbe stato meglio che fosse rimasto a Nippur piuttosto che venire qui a rendere un servizio così eccellente ad un Signore elamita.» E alzai l’ascia per frantumare la porta.

Ma Enkidu mi afferrò per un braccio e mi fermò. Mi girai a guardarlo, accigliato.

«Che cosa c’è?»

Gli occhi gli fiammeggiavano.

«Questa porta è molto bella, Gilgamesh.»

«Si. Ma hai letto quell’iscrizione? Un uomo della mia nazione l’ha costruita per i nostri nemici.»

«È possibile,» disse con indifferenza Enkidu. «Ciononostante è bella, e non dovrebbe essere distrutta. La bellezza viene dagli Dei, non è vero? Penso che non dovresti distruggere la porta. Fatti da parte, amico mio, la forzerò. Che cosa importa se l’ha costruita un traditore, se il suo lavoro è così perfetto? È chiaro che gli Dei hanno guidato la sua mano. Non lo vedi?»

Mi meravigliò sentirlo ragionare in quel modo, ma capii che le sue parole erano sagge, il che mi umiliò. Cedetti alla sua volontà. Ora vorrei non averlo fatto. Enkidu si fece avanti e spinse il bordo dell’ascia contro il lucchetto, poi spinse con tutta la sua forza, tanto che gli si gonfiarono tendini e muscoli su tutto il corpo. Gemeva per la fatica, ma la porta si aprì davanti a lui. In quell’istante lanciò un grido soffocato, lasciò cadere l’ascia, e con la mano sinistra si colpì il braccio destro, che penzolava inerte, come se fosse appeso ad una fune. Cadde in ginocchio, e intanto gemeva e si strofinava il braccio.

Mi inginocchiai al suo fianco.

«Che cosa è successo, amico mio? Che cosa ti è capitato?»

Con voce soffocata, mormorò: «Ci deve essere un Demone nella porta. Guarda: mi sono fatto male al braccio! È rovinata, è inutile. Su, guarda tu stesso.»

La sua mano era freddissima al tatto, penzolava come una cosa morta, e la pelle aveva strane macchie e chiazze. Tremava come se fosse stato colto da un attacco di febbre. Sentii che i denti gli sbattevano l’uno contro l’altro.

«Vino!», gridai. «Portate del vino per Enkidu!»

Il vino lo scaldò e il tremito cessò. Ma la mano restò floscia, sebbene l’avessimo scaldata e strofinata per ore. Passarono molti giorni prima che cominciasse a riprenderne l’uso, ma non tornò mai più la stessa. Era triste che un Eroe come Enkidu dovesse perdere una parte della sua forza, soprattutto perché gli era accaduto per salvare qualcosa di bello. Il fatto peggiore fu che gli tornò la paura di Huwawa, perché si convinse che il Demone aveva messo una maledizione sulla porta. Non voleva attraversare quella porta che egli stesso aveva aperto per noi.

Mi addolorava che avesse di nuovo paura, e che i nostri compagni dovessero vederlo in uno stato simile. Ma Enkidu non voleva attraversare la porta, e io non l’avrei mai lasciato da solo. Di conseguenza, ci accampammo li e restammo per qualche tempo, finché il mio amico non cessò di contorcersi per il dolore e disse che sentiva ritornare la forza nella mano. Ma anche allora era riluttante ad andare avanti. Si era chiuso in un silenzio disperato e tetro, perso nelle sue meditazioni. La paura lo teneva come uno spaventoso uccello della notte che gli artigliasse le spalle. Allora gli dissi: «Su, è ora di partire.»