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Scosse la testa.

«Va’ senza di me, Gilgamesh!»

Risposi in tono brusco: «Mi fa male sentirti parlare come un debole. Siamo arrivati fin qui e abbiamo affrontato tanti pericoli, solo per tornare indietro?»

Con la stessa bruschezza, rispose: «Quando ti ho chiesto di tornare indietro?»

«Non me lo hai chiesto mai.»

«Allora prosegui senza di me!»

«Non lo farò. Ma non tornerò a mani vuote ad Uruk.»

«Se la metti così, non mi lasci nessuna scelta. Devo venire con te, allora? Devo fare tutto quello che vuoi?»

«Io non ti voglio forzare,» dissi, addolorato. «Ma noi siamo fratelli, Enkidu. Dovremmo affrontare tutti i pericoli l’uno a fianco dell’altro.»

Mi lanciò un’occhiata amara e invelenita.

«Dovremmo, dovremmo? E se io non voglio?»

Lo fissai.

«Non è da te.»

«No,» disse con tristezza e con un sospiro. «Non è da me. Ma che cosa posso fare? Che cosa possiamo fare? Quando mi sono fatto male alla mano, mi ha preso un terrore enorme, Gilgamesh. Ho paura. Capisci questa parola? Ho paura, Gilgamesh!» Negli occhi aveva un’espressione che non vi avevo mai visto: terrore, vergogna, senso di colpa, rabbia, mille sentimenti cupi vi si leggevano contemporaneamente. Aveva il volto lucido per il sudore. Si guardò intorno come se temesse che gli altri avessero udito il nostro discorso. A voce bassa, soffocata dall’angoscia, disse: «Che cosa possiamo fare?»

Scossi la testa.

«C’è un sistema. Ecco: sta’ vicino a me, afferrati ad un lembo della mia tunica. La mia forza entrerà in te e la tua debolezza passerà. Il tremito lascerà la tua mano. Allora entreremo insieme nella foresta. Lo farai?»

Esitò. Poi disse: «Pensi che io sia un vigliacco, Gilgamesh?»

«No. Non sei un vigliacco, Enkidu.»

«Hai detto che sono un debole.»

«Ho detto che mi addolorava sentirti parlare come un debole. È proprio perché tu non sei un debole che ciò mi addolora. Hai capito, fratello?»

«Ho capito.»

«Su, allora. Lascia che ti guarisca.»

«Lo puoi fare?»

«Penso di si.»

«Fallo, allora.»

Mi si avvicinò, allungò la mano a prendere un lembo della mia tunica, lo tenne per un momento, poi io lo abbracciai con tanta forza che le braccia mi tremarono. Un attimo dopo, Enkidu mi afferrò con la stessa forza. Non parlammo, ma sentii che la paura lo lasciava. Sentii che il coraggio gli tornava. Era tornato ad essere Enkidu, e capii che sarebbe venuto con me nella foresta.

«Su,» dissi. «Preparati. Huwawa ci aspetta. Il calore del combattimento ti scalderà il sangue e rafforzerà la tua decisione. Penso che nessun demone possa farci del male, se stiamo vicini. Ma, se cadremo in battaglia, ebbene, il nostro nome sarà ricordato per sempre.»

Ascoltò senza replicare. Dopo un po’, annuì, sia alzò e mi tocco una mano: spegnemmo il fuoco dell’accampamento e andammo ad oliare le sue armi. Durante la mattinata, attraversammo la porta ed entrammo nella foresta dei cedri, non in maniera avventata, ma con coraggio e determinazione.

Era un luogo che incuteva timore. Sembrava un Tempio. Tutt’intorno a me sentivo la presenza di divinità, sebbene non sapessi quali fossero. I cedri erano gli alberi più alti che avevo mai visto: si alzavano come lance verso il cielo, con un’ampia radura intorno. Ma le loro chiome erano così folte, che la luce del sole penetrava a stento attraverso la coltre che formavano. Era un mondo verde e silenzioso, fresco, pieno di delizie. Davanti a noi si scorgeva una montagna solitaria, senza dubbio una dimora degli Dei, un trono degno del Dio più potente. Ma si avvertiva anche la presenza di Huwawa: lo sentivamo, e ne scorgevamo le tracce, perché c’erano alcune zone della foresta in cui dal suolo uscivano i gas e le fiamme sotterranee, che erano il segno del demone.

Ma non si vedeva nessuna traccia più immediata. Ci inoltrammo nella foresta, finché il buio non ci fermò. Quando il sole cominciò a scendere, scavai un pozzo e feci l’offerta dell’acqua. Sparsi tre manciate di farina fine davanti alla montagna, e chiesi al Dio della montagna di mandarmi un sogno favorevole. Poi mi stesi accanto ad Enkidu e mi affidai al sonno.

Nel cuore della notte mi svegliai di colpo, e mi alzai a sedere di scatto, completamente sveglio. Alla fioca luce del nostro fuoco vidi gli occhi scintillanti di Enkidu.

«Che cosa ti turba, fratello?»

«Sei stato tu a svegliarmi?»

«Non sono stato io,» disse. «Devi aver sognato.»

«Ho sognato, si.»

«Raccontami il sogno.»

Mi guardai dentro e vidi le nebbie avvolgere la mia mente, simili ad un bianco ammasso di folti fiocchi di lana: ma dietro le nebbie scorsi il mio sogno, o una parte di esso. In quel sogno, Enkidu e io stavamo attraversando un profondo burrone nella montagna dei cedri. Sullo sfondo della massa enorme della montagna, sembravamo non molto più grandi dei moscerini neri che ronzano tra le canne delle paludi, poi la montagna si sollevò come una nave spinta da un’onda e cominciò a cadere. Non ricordavo altro.

Raccontai il sogno a Enkidu, con la speranza che avrebbe saputo interpretarlo, ma egli si strinse nelle spalle, disse che era una visione incompiuta, e mi spinse a dormire. Dubitai che sarei ancora riuscito a dormire quella notte, ma mi sbagliavo perché, non appena chiusi gli occhi, ripresi a sognare.

Era lo stesso sogno: la montagna mi cadeva addosso. Una frana mi fece mancare la terra sotto i piedi, e una luce terribile si accese e arse in maniera intollerabile. Ma poi apparve un uomo, o un Dio, credo, di una grazia e di una bellezza impossibili in questo mondo. Mi tirò da sotto la montagna, mi diede da bere dell’acqua, e io ripresi coraggio. Mi alzò e mi rimise in piedi.

Svegliai Enkidu e gli raccontai il mio secondo sogno. Il mio amico disse subito: «È un sogno favorevole, un sogno eccellente. La montagna che hai sognato, amico mio, è Huwawa. Anche se ci assalirà, noi lo sconfiggeremo capisci? Gli Dei ti sono vicini: domani lo prenderemo. Lo uccideremo, e getteremo il suo corpo sulla pianura.»

«Ne sembri molto sicuro.»

«Ne sono sicuro,» disse. «Ora dormi, fratello. Dormi.»

Ci riaddormentammo. Questa volta la montagna dei cedri mandò un sogno a Enkidu, e non era un sogno favorevole: scrosci di pioggia gelida lo colpivano, e lui si rannicchiava e tremava come l’orzo di montagna in una tempesta invernale. Quando lo sentii gridare, mi svegliai, e lui mi raccontò il sogno. Non cercammo di capirne il significato: a volte è meglio non approfondire troppo il significato di un sogno. Ancora una volta, in quella notte affollata di sogni, appoggiai il mento sulle ginocchia e mi abbandonai al sogno. Ancora una volta sognai, e ancora una volta mi svegliai meravigliato da quel sogno, spaventato, tremante.

«Un altro?», chiese Enkidu.

«Guarda come tremo!», sussurrai. «Che cosa mi ha svegliato? Mi è passato accanto un Dio? Perché il corpo mi formicola?»

«Dimmi, hai sognato di nuovo?»

«Si. Ho fatto un terzo sogno, più spaventoso degli altri.» «Raccontalo.»

«Che cosa abbiamo mangiato che ci provoca simili sogni stanotte?»

«Finché non lo racconterai, ti opprimerà.»

«Sì,» dissi. Ma cercavo ancora di allontanarlo, sebbene le sue immagini orrende mi bruciassero ancora nella mente. Enkidu aveva ragione: si devono raccontare i sogni, si deve portarli alla luce, altrimenti rodono l’anima come vermi.