Qualche attimo dopo, inspirai profondamente e dissi, con voce lenta ed esitante: «Adesso te lo racconto. Il tempo era bello, l’aria era immobile. Poi, all’improvviso, il cielo gridava, la terra ruggiva e rombava, la luce svaniva e scendevano le tenebre. All’orizzonte lampeggiavano fulmini e ardevano fiamme. Le nuvole diventavano pesanti e ne pioveva la morte. Poi i fulmini svanivano, le fiamme si spegnevano, e intorno a noi tutto diventava cenere.
Enkidu tremò.
«Penso che non dovremmo più dormire stanotte,» disse.
«Ma il sogno? Che cosa ne dici di questo sogno?»
«Su, alzati, cammina con me, fratello. Dimentica il sogno.»
«Dimenticarlo? Come?»
«È solo un sogno, Gilgamesh.»
Lo guardai, perplesso, poi sorrisi.
«Se i presagi sono favorevoli, dici che il sogno è eccellente. Se i presagi sono negativi, dici che è solo un sogno. Non capisci…»
«Capisco solo che l’alba è vicina,» disse. «Su, vieni con me nella foresta. Abbiamo un lavoro pesante da fare all’alba.»
Sì — pensai — forse aveva ragione. Forse il sogno non doveva essere analizzato. La mattina ci avrebbe portato grandi pericoli e noi avevamo bisogno di tutto il nostro coraggio.
Alla prima luce del giorno svegliai i miei uomini. Indossammo i pettorali, prendemmo le spade e le asce, e ci avviammo lungo il pendio della vallata che si stendeva davanti alla montagna dei cedri. Era in quel luogo, disse Enkidu, che aveva incontrato Huwawa la prima volta che era stato nella foresta dei cedri. Il Demone si era alzato senza alcun preavviso dalla terra, ma lui aveva avuto la fortuna di scappare.
«Oggi,» disse, «sarà Huwawa ad avere la fortuna di scappare. E, quando l’avremo finita con lui, ci occuperemo di quegli Elamiti che costruiscono mura intorno alle foreste, eh, fratello?»
Scoppiai a ridere: mi sentivo bene all’idea di andare in guerra. Non importava che il nostro nemico fosse un Demone, non importava che il mio secondo sogno e quello di Enkidu fossero pieni di oscuri presagi. C’è felicità che siamo destinati a fare, noi che siamo guerrieri. Voi che restate a casa, nelle città, a diventare grassi, non lo potete capire. Ma la vera guerra non è solo insensata distruzione: significa mettere a posto le cose che devono essere messe a posto, e questo è un compito santo.
Quando avanzammo, sentimmo un rombo provenire dal sottosuolo, lontano ma inconfondibile. Forse era uno degli Dei con la corona di corna che si agitava e camminava avanti e indietro sottoterra. Questo pensiero mi fece riflettere. Posso combattere contro i Demoni a cuor leggero, ma che speranza c’è a combattere contro gli Dei?
Pregai Lugalbanda di essermi sbagliato. Lo pregai che quei lontani tuoni sotterranei non annunciassero la rabbia di Enlil. Che sia solo Huwawa che si stava svegliando, pregai. Che sia solo il Demone, e non il Dio.
Dietro di me sentii i miei uomini mormorare a disagio.
«Com’è questo Demone?», chiese uno, e un altro disse: «Zanne di drago, testa di leone!»
Poi un altro: «Ruggisce come la tromba d’aria,» e ancora un altro: «Piedi con gli artigli, occhi di morte.»
Mi girai a guardarli, risi, e gridai: «Sì, continuate così: spaventatevi! Fatelo diventare un mostro orrendo! Tre teste, dieci braccia!» Unii le mani a coppa, le portai alla bocca e gridai nella foresta avvolta dalla foschia: «Huwawa! Vieni! Vieni, Huwawa!»
La terra tremò di nuovo, questa volta con maggiore violenza.
Balzai in avanti, con Enkidu al fianco e gli altri che ci seguivano da vicino. Davanti a noi c’era un grande cedro solitario che si stagliava come un albero maestro, più alto degli altri alberi, e pensai che fosse il modo di chiamare Huwawa. Allora presi l’ascia che portavo a tracolla, e mi misi all’opera con tutta la mia forza, mentre Enkidu lavorava dall’altra parte del tronco, tagliando la tacca più piccola per guidare l’albero nella caduta.
Sentii arrivare una forte corrente di aria calda, il che era strano, dal momento che erano ancora le ore più fresche della mattina. Qualcosa si stava svegliando, non c’erano dubbi, qualcosa di enorme e di violento, di caldo e furioso. In lontananza vidi muoversi le cime degli alberi, e sentii il rumore dei rami che si spezzavano. Un colpo dopo l’altro incidevano il tronco del grande cedro: era ormai sul punto di cadere.
Poi, con mio grande orrore, mi accorsi del ronzio che mi avvertiva dell’arrivo del Dio. Stavo entrando in quello stato di estasi che mi prendeva quando suonavo il tamburo. Non ora, pregai disperatamente. Non ora! Ma sarebbe stato più facile trattenere gli otto venti. Le vene del collo mi si gonfiarono, e cominciarono a pulsare con violenza. I bulbi oculari mi palpitavano come se volessero uscire dalle orbite, le mani mi formicolavano. Ogni colpo dell’ascia contro il legno mi inviava una corrente di fuoco nelle vene.
«Dai, fratello, dai!», mi incitava Enkidu dall’altra parte del cedro. Non capiva che cosa mi stesse succedendo. «Ce l’abbiamo fatta, ormai. Altri quattro colpi… tre…»
Provavo contemporaneamente estasi e terrore. L’aria era diventata blu e caldissima. Un fiume di acqua nera si stava alzando dalla terra, e un’aura dorata circondava tutto quello che vedevo: Il Dio si stava impossessando della mia mente.
La terra, tremò, si gonfiò e si sollevò. Invocai Lugalbanda per tre volte.
Poi sentii la voce di Enkidu gridare al di sopra della confusione: «Huwawa! Huwawa! Huwawa!»
Il Demone arrivò, ma in quel momento non lo vidi. Le tenebre mi avvolsero, e il Dio mi ingoiò.
22
Quando ripresi i sensi, mi trovai steso a terra con la testa poggiata nel grembo di Enkidu. Il mio amico mi strofinava la fronte e le spalle; era riposante. Avevo dolori dovunque, ma soprattutto sul viso e sul collo. Il grande cedro era stato abbattuto; in effetti, la maggior parte degli alberi che ci circondavano erano caduti, o parzialmente caduti, come se una metà della foresta fosse stata abbattuta da un terremoto. Scure crepe solcavano la terra in molti punti. Di fronte a noi, la terra si era aperta, e un’orrenda colonna di fumo nero, striato di fiamme, eruttava verso il cielo, provocando un rumore che sembrava il muggito del Toro nel cielo l’ultimo giorno del mondo.
«Che cos’è?», chiesi ad Enkidu, indicando la ruggente colonna di fumo.!
«È Huwawa» disse.
«Quello è Huwawa? Huwawa non è nient’altro che fumo e fiamme?»
«Questa è la forma che ha assunto oggi.»
«È un Demone,» spiegò Enkidu, stringendosi nelle spalle. «I Demoni prendono la forma che preferiscono. Ha paura di colpire, perché avverte in te la presenza del Dio. Volteggia sotto forma di colonna di fumo. Questo è il momento di ucciderlo.»
«Aiutami ad alzarmi.»
Mi sollevò come se fossi un bambino, e mi mise in piedi. Mi girava la testa, e ondeggiavo, ma Enkidu mi fermò e quindi le vertigini mi passarono. Piantai i piedi per terra. Il suolo rombava per la violenza con cui Huwawa eruttava dalla sua tana sotterranea, ma per il resto era di nuovo saldo. Qualsiasi fosse stata la creatura che si era agitata sottoterra prima del terremoto, Enlil dalla Corona di Corna o il suo servo Huwawa, ora non scuoteva più i pilastri e le fondamenta che reggono il mondo.
Avanzai e osservai Huwawa.
Era difficile avvicinarsi. L’aria intorno a quella colonna di fumo era fetida e vischiosa, e mi avvolgeva i polmoni di una patina fangosa. La testa mi pulsava, e non solo come conseguenza dell’estasi. Mi rammentai di quanto si raccontava su Lugalbanda, il quale, viaggiando nelle regioni orientali, fu sopraffatto sui pendii del Monte Harum da un Demone-fumo molto simile a quello, e fu creduto morto e abbandonato dai suoi compagni.
«Dobbiamo fare attenzione,» dissi agli altri, «a non far penetrare nelle narici quel Demone-fumo.»
Tagliammo gli orli delle tuniche e ci avvolgemmo delle strisce di stoffa intorno alla faccia. Facemmo poi attenzione a respirare il meno possibile mentre scrutavamo da vicino quel fumo venefico.