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Il crepaccio che si era aperto nella terra per far uscire Huwawa non era grande: avrei potuto coprirne la larghezza con le due mani. Dal crepaccio però, il Demone usciva con una forza enorme. Guardai, alla ricerca di faccia e occhi, ma non vidi nient’altro che fumo. Allora gridai: «Ti evoco, Huwawa, fatti vedere nel tuo vero aspetto!» Ma continuai a non vedere nient’altro che fumo.

Enkidu disse: «Come facciamo ad ucciderlo, se è solo fumo?»

«Affogandolo,» replicai, «e soffocandolo.»

Indicai un punto vicino, in cui il terremoto aveva liberato una fonte sotterranea. Un rivoletto scorreva verso il fondo della valle: l’acqua era tiepida, a causa dell’alito del Dio che stava sottoterra, ed esalava vapore.

Ci riunimmo e preparammo un piano. Ordinai a trenta dei miei uomini di scavare un canale per guidare il corso d’acqua verso la bocca attraverso la quale Huwawa infuriava. Agli altri assegnai il compito di tagliare il tronco del grande cedro, di ricavarne un pezzo lungo il doppio di un uomo e di dargli la forma di un palo appuntito. Lavoravamo in fretta, per paura che il Demone assumesse la forma solida e ci attaccasse. Ma la presenza del Dio dentro di me sembrava tenerlo ancora a bada. Per essere sicuro della protezione, ordinai a tre uomini di cantare e di fare segni sacri senza sosta.

Quando fummo pronti, chiamai.

«Huwawa? Senti la mia voce, Demone? È Gilgamesh, Re di Uruk, ad ucciderti!»

Guardai Enkidu e, per un istante, ve lo dico in tutta sincerità, sentii timore e dubbio. Non è poca cosa uccidere un Demone che è al servizio di Enlil. Mi chiesi anche se, dopotutto, ci fosse veramente bisogno di ucciderlo, o se non fosse sufficiente chiudere la sua tana e lasciarlo prigioniero lì dentro. Vi confesserò che il mio cuore si era mosso a compassione per il Demone. Vi sembra strano? Ma questa era la mia sensazione.

Enkidu, che conosceva il mio animo come il suo, mi vide tentennare. Mi disse: «Presto, Gilgamesh! Questo non è il momento di esitare. Il Demone deve morire, fratello, se vuoi avere una speranza di lasciare questo posto. Non c’è da discutere: se lo risparmierai, non farai più ritorno alla tua città e alla madre che ti ha partorito. Bloccherà la strada della montagna. Renderà invalicabili i sentieri.»

Compresi la saggezza delle sue parole. Alzai una mano e diedi il segnale.

In quel momento gli uomini aprirono una breccia nella diga di terra che avevano costruito per bloccare il rivoletto, e ne fecero correre le acque nel nuovo canale che scendeva verso lo sfiatatoio di Huwawa. Guardai la cascata di acqua calda fluire velocemente verso la tana del Demone.

Quando raggiunse il crepaccio e vi precipitò dentro, dall’abisso si alzarono gemiti e ululati. Un getto bianco e caldo si alzò al centro della nuvola nera, e io sentii tuonare e ruggire. Il terreno tremò come se volesse di nuovo gonfiarsi e alzarsi, ma restò fermo. Il crepaccio assorbì il corso d’acqua, e il corso d’acqua continuò ad affluire, fornendogli tutto quello che riusciva a bere. Nella colonna nera le scintille rosse si oscurarono, il fumo fetido vacillò e cominciò ad uscire a getti soffocati.

«Ora,» dissi, e alzammo il palo di cedro.

Io ne portavo il peso maggiore, sebbene Enkidu con la sua sola mano buona avesse più forza di un uomo normale, sano e intero. Sette o otto degli uomini corsero accanto a noi per aiutarci. Trasportammo quel palo enorme ad una velocità folle finché non fummo vicini alla tana fumante, il più vicino possibile, con gli occhi lacrimanti e le facce arrossate per la mancanza di aria. Poi ci alzammo sulla punta dei piedi, gettammo il palo nell’apertura e lo pigiammo ben bene.

Ci allontanammo rapidamente, pensando che la terra eruttasse. Ma no: il Demone era indebolito o annegato dall’acqua, e non ce la faceva a liberarsi del tappo di legno. Vidi spirali di fumo alzarsi dalla terra poco lontano, ma poi scomparvero, e non sentimmo più nulla.

Tutto era mortalmente calmo. La fiamma e la gloria di Huwawa si erano estinte. Non c’era più fumo, non c’era più fuoco, solo un tanfo residuo che infestava l’aria e ci assaliva le narici, ma anche quel fetore cominciò presto a scomparire nell’aria fresca e dolce della foresta dei cedri. Penso che, quando le numerose ripetizioni del racconto cominceranno a trasformarlo, visto che le storie si trasformano sempre con il passare del tempo, si narrerà che io e Enkidu assalimmo Huwawa e gli tagliammo la testa. Gli arpisti dei giorni futuri non capiranno come avessimo potuto uccidere un Demone con null’altro che un rivoletto d’acqua e un palo appuntito. Sia pure, ma fu così che l’uccidemmo, qualsiasi cosa si racconterà quando io non ci sarò a testimoniare la verità.

«È morto,» dissi. «Su, purifichiamo il luogo, e andiamo avanti.»

Tagliammo rami di cedro, li posammo sulla tomba del Demone, facemmo le nostre offerte e recitammo le Parole Sacre. Dopodiché scegliemmo cinquanta bei tronchi di cedro da portare con noi ad Uruk, li privammo delle foghe e li caricammo. Quando il lavoro fu terminato, tornammo alle mura che avevano costruito gli Elamiti e le abbattemmo come se fossero state di canne. Ma, per amore della bellezza, lasciammo intatta la splendida porta che il traditore Uru-ragaba aveva costruito.

Mentre stavamo per andarcene, un centinaio di guerrieri elamiti ci circondarono e ci chiesero nel nome del loro Re perché stessimo violando i loro confini. Al che replicai che non stavamo violando nessun confine, ma eravamo solo andati a raccogliere un po’ di legna per il nostro Tempio. E avevamo anche dovuto uccidere il Demone nella foresta. Trovarono insolente la mia risposta.

«Chi sei?» domandò il loro capo.

«Chi sono?», dissi a Enkidu. «Diglielo.»

«Beh, tu sei Gilgamesh, Re di Uruk, il più grande degli Eroi, il toro selvaggio che conquista tutte le montagne che vuole: Gilgamesh il Re, il Gilgamesh il Dio. E io sono Enkidu tuo fratello.» Si diede una manata sulla pancia, scoppiò a ridere e disse all’Elamita: «Conosci il nome di Gilgamesh?»

Ma gli Elamiti erano già in fuga. Li inseguimmo e ne uccidemmo una metà, ma lasciammo andare gli altri, in modo che riferissero al loro Re che non era prudente costruire mura intorno alla foresta di cedri. Penso che il Re elamita comprendesse la saggezza del messaggio, perché non sentii più parlare né di simili mura né del temibile Huwawa. Da allora in poi, potemmo andare a prendere senza nessun impedimento tutti i cedri che ci servivano.

23

Fu un momento di trionfo. Entrammo in Uruk felici come se avessimo conquistato sei regni. C’era una sorta di follia nel nostro orgoglio, credo, ma penso che fosse un orgoglio comprensibile. Non si ammazzano Demoni tutti i giorni, dopotutto.

Celebrammo i nostri successi nella Terra dei Cedri e il nostro ritorno, con banchetti e risate. Ma ci fu un pizzico di discordia all’inizio di quella notte di festeggiamenti, e ce ne fu un altro prima che la notte finisse.

Quando all’imbrunire ci avvicinammo alle mura della città con il bottino, la Porta Regale si aprì e ne uscì un comitato di accoglienza formato da molti carri, guidati da Zabardi-bunugga. Le trombe squillavano, le bandiere sventolavano, e io sentivo ripetere il mio nome. Ci fermammo ad aspettare. Zabardi-bunugga, si fermò davanti a me, mi salutò con le mani alzate e mi regalò il fascio di spighe di orzo che si dona di solito al Re di ritorno da un viaggio. Fece delle offerte per rendere grazie della mia salvezza. Poi, insieme, versammo libagioni ai divini. Il buon Zabardi-bunugga dalla faccia piatta: che Principe degno e leale!

Quando queste cerimonie furono finite, ci abbracciammo in modo meno formale. Zabardi-bunugga fece un cenno di saluto anche ad Enkidu, e sorrise a Bir-hurturre. Se pure c’era invidia in Zabardi-bunugga per non aver partecipato alla nostra grande avventura, io non me ne accorsi. Gli dissi come era andato il viaggio, ma lui già lo sapeva, perché eravamo stati preceduti da messaggeri che avevano recato la notizia della nostra vittoria. Poi gli chiesi come fossero andate le cose ad Uruk durante la mia assenza, e un’ombra gli attraversò gli occhi. Distolse lo sguardo e disse: «La città prospera, Gilgamesh.»