Non era difficile avvertire il suo disagio, l’esitazione, il disappunto: «È vero?»
In tono inquieto, replicò: «Posso entrare in città con te?»
Gli feci cenno di salire sul mio carro. Lanciò un’occhiata ad Enkidu che mi camminava accanto, ma io mi strinsi nelle spalle come a dire: qualsiasi cosa hai da dirmi, mio fratello la può sentire. Zabardi-bunugga capì senza bisogno di parole. Con agilità salì sul carro, ed Enkidu fece segno alla processione di entrare attraverso la grande porta della città.
«Allora?», dissi. «C’è qualche problema, è vero? Parlamene.»
A bassa voce Zabardi-bunugga disse: «La Dea è agitata. Penso che sia pericoloso, Gilgamesh.»
«Che cosa fa?»
«Rimugina. Si cruccia. Pensa che tu l’abbia dimenticata, che tu faccia più di quanto debba. Dice che la ignori, che non la consulti, che vai per la tua strada come se questa non fosse la città di Inanna, ma fosse diventata solo la città di Gigalmesh.»
«Io sono il Re,» dissi.
«Lei vorrebbe ricordarti, penso, che sei Re solo grazie al la Dea.»
«Lo so, e non lo dimenticherò mai. Ma lei deve ricordare di non essere la Dea, ma solo la voce della Dea.» Poi scoppiai a ridere. «Pensi che sia blasfemo, Zabardi-bunugga? No. È la verità: tutti dobbiamo ricordarcene. La Dea parla attraverso lei, ma lei è solo una Sacerdotessa. E io porto il fardello della città tutti i giorni.» Quando ci avvicinammo alla porta della città gli chiesi: «Quali prove hai della sua ira?»
«Mio padre mi ha detto che è andata a trovarlo al Tempio di An per consultare antiche tavolette: scritti del tempo di Enmerkar, gli annali del regno di tuo nonno, e i resoconti dei suoi rapporti con la Sacerdotessa del tempo. È stata anche agli archivi dei Sacerdoti di Enlil. E numerose volte ha convocato l’assemblea degli anziani mentre tu eri assente.»
In tono scherzoso, dissi: «Forse sta scrivendo un libro di storia, eh?»
«Non credo, Gilgamesh. Sta cercando il modo di tenerti sotto controllo: cerca dei precedenti, ricerca strategie già provate.»
«È solo un sospetto o lo sai con certezza?»
«È una certezza. Ne parla chiaramente, e molti l’hanno sentita. Il tuo viaggio l’ha irritata. Lo ha detto a tua madre, a mio padre Gungunum, a qualcuno dell’assemblea degli anziani, e perfino ai suoi seguaci. Non ha fatto segreto della sua rabbia. Dice che è stato arrogante da parte tua intraprendere quest’avventura senza prima chiedere la sua benedizione.»
«Ah sì? Ma noi avevamo bisogno dei cedri. Gli Elamiti avevano costruito delle mura nella foresta. Non era solo una ricerca sacra, Zabardi-bunugga: era una guerra. Le decisioni che riguardano la guerra sono di esclusiva pertinenza del Re.»
«Lei la vede in un altro modo, penso.»
«La istruirò, allora.»
«Sta’ attento: è una donna pericolosa.»
Gli poggiai una mano su un polso e sorrisi.
«Non mi dici niente di nuovo, amico mio, ma starò in guardia. E ti ringrazio.»
Attraversammo la porta. Mi girai e alzai in alto lo scudo, in modo da acchiappare l’ultimo bagliore del sole morente e mandare raggi di luce dorata sulla folla schierata lungo la strada. Metà della città era uscita per darmi il benvenuto. «Gilgamesh!», gridarono, finché le voci non divennero rauche. «Gilgamesh! Gilgamesh!». E usavano la parola che significa divino, che di solito non viene usata per un Re ancora vivo. «Gilgamesh il Dio! Gilgamesh il Dio!» Ne ero imbarazzato, ma solo un poco, perché sarebbe stato sciocco negare la presenza del Dio dentro di me.
Gli avvertimenti di Zabardi-bunugga avevano rattristato alquanto il mio ritorno. Ma non ero stato molto sorpreso nell’udirli: Inanna era stata accondiscendente troppo a lungo, e da qualche tempo mi aspettavo delle difficoltà da parte sua. Beh, avremmo visto in seguito, ma decisi di non meditare su quella faccenda in quel momento. Era la notte del mio ritorno, del mia trionfo.
A palazzo oliai e pulii le mie armi, le riposi nell’armeria, e dissi per loro le preghiere del riposo. Poi andai nei bagni e mi sciolsi la treccia in modo che i capelli mi ricadessero sulle spalle. Le ancelle li lavarono per togliere la sporcizia del viaggio, dopodiché decisi di lasciarli sciolti. Mi avvolsi in un bel mantello frangiato, mi legai alla vita una fusciacca scarlatta, e misi perfino la tiara regale che non porto spesso.
Quando fui pronto, chiamai i miei cinquanta Eroi e Enkidu. Ci riunimmo nella grande sala del palazzo per un banchetto a base di vitelli e agnelli arrostiti, di dolci di farina e miele, di birra sia del tipo forte che del tipo leggero, di vino di palma — quella del Re — il più denso e più saporoso. Bevemmo perfino il vino di uva, che importiamo dai territori del nord, un liquido porpora scuro che fa innalzare l’anima in volo. Cantammo e raccontammo le storie dei guerrieri del passato, ci spogliammo e lottammo alla luce dei fuochi, ci unimmo alle ancelle del palazzo finché non fummo sazi. Poi ci lavammo e indossammo di nuovo i nostri abiti più belli.
Sfilammo per la città, suonando pifferi e trombe, e battendo le mani. Ci pavoneggiammo. Ah, fu una notte bellissima, una notte splendida! Non ne vivrò mai nessun’altra così.
Nelle ore grigio-argentee dell’alba, guerrieri addormentati erano ammucchiati in ogni angolo del palazzo, e russavano ancora ubriachi. Non sentivo il bisogno di dormire, perciò andai a lavarmi alla fontana. Enkidu era con me: i suoi abiti puzzavano di vino e di succo di carne, ma credo che i miei non fossero in uno stato migliore. Frammenti di paglia e di legno bruciato ci riempivano la barba e i capelli, ma l’acqua fredda ci ristorò e ci ripulì, come se provenisse dalla fonte degli Dei.
Quando emersi dall’acqua, mi guardai intorno in cerca di una schiava che ci portasse abiti puliti, e scorsi una figura snella all’estremità del cortile, una donna che indossava una tunica color cenere, di una stoffa sottile e luccicante, e uno scialle avvolto intorno alla faccia in modo da nasconderne i tratti. Sembrava dirigersi verso di me.
«Ehi, tu!», gridai. «Vieni a renderci un servizio, per favore!»
Lei si girò verso di me e abbassò lo scialle. Vidi il suo volto. Ma non credetti a quello che vidi.
«Gilgamesh?», disse piano.
Trattenni il fiato per lo stupore. Doveva essere un’apparizione.
«Un Demone!», sussurrai. «„Guarda, Enkidu, ha la faccia di Inanna! Deve essere Lilitu venuta a perseguitarci, oppure è’ il fantasma Utukku?»
La paura e il timore mi colpirono come il clangore di una campana di bronzo. Tremai e frugai tra le mie vesti sporche in cerca del piccolo amuleto della Dea che la giovane Sacerdotessa Inanna mi aveva dato tanto tempo prima.
Con la stessa voce dolce, disse: «Non aver paura, Gilgamesh. Sono Inanna.»
«Qui? Nel palazzo? La Sacerdotessa non esce mai dal Tempio per vedere il Re: invita il Re ad andarla a trovare nel Tempio.»
«Questa notte sono io che vengo da te,» disse. Era accanto a me ora, e mi sembrava che dicesse la verità: se era un Demone, aveva un’abilità nella mimesi maggiore di qualsiasi Demone io conoscessi. E quale Demone, ad ogni modo, avrebbe osato assumere le sembianze della Dea entro le mura della città della Dea? Eppure non riuscivo a capire la presenza di Inanna all’interno del palazzo: non era giusta, non stava bene. La schiena mi si gelò, e sentivo brividi di freddo lungo la nuca. Raccolsi la tunica e me la avvolsi intorno, sporca e sudata com’era. Enkidu guardava la Sacerdotessa come se fosse una belva selvaggia dei campi, tutta zanne e denti, pronta a balzare.
Chiesi con voce rauca: «Che cosa vuoi da me?»
«Scambiare qualche parola. Solo qualche parola.»