Avevo la gola secca, le labbra screpolate.
«Parla, allora!»
«Quello che ho da dirti, vorrei dirtelo in privato.»
Lanciai un’occhiata a Enkidu, che si stava accigliando. Mi dispiaceva mandarlo via, ma conoscevo Inanna abbastanza bene da capire che non avrebbe ceduto. Tristemente gli dissi: «Ti chiedo di lasciarci da soli, amico mio.»
«Devo andare?»
«Questa volta sì,» dissi. Lentamente Enkidu si allontanò dal cortile, girandosi a guardare spesso, come se temesse che la Sacerdotessa mi sarebbe balzata addosso non appena lui se ne fosse andato.
Inanna cominciò a parlare.
«Ti ho visto dal portico del Tempio, quando ieri sera sei sfilato lungo le strade insieme ai tuoi Eroi. Non sei mai stato così bello, Gilgamesh. Eri raggiante come un Dio.»
«Era la gioia della vittoria a farmi risplendere. Abbiamo ucciso il Demone, abbiamo ottenuto la legna, abbiamo abbattuto il muro alzato dagli Elamiti.»
«Così mi hanno detto. È stata una vittoria meravigliosa, e tu sei un eroe insuperabile: si canterà delle tue imprese nelle età future.»
La guardai negli occhi. A quell’ora, alla luce prigioniera dell’alba, avevano un colore che non avevo mai visto, più scuro perfino del nero. Studiai gli archi perfetti delle sue sopracciglia, ed esaminai il bel naso diritto e le labbra piene. Emanava calore, ma era un calore freddo. Non avrei saputo dire se mi stava davanti in qualità di Dea o di donna: le due personalità erano mescolate in lei più del solito. Pensai agli avvertimenti che mi aveva fatto Zabardi-bunugga: da quello che mi aveva detto sapevo che mi era nemica, ma non mi sembrava una nemica in quel momento.
«Perché sei qui, Inanna?»
«Non ne ho potuto fare a meno. Quando ieri sera ti ho visto, mi sono detta: andrò da lui quando il banchetto sarà finito, prima dell’alba, e mi offrirò a lui.»
«Offrirti? Che cosa stai dicendo?»
I suoi occhi avevano una strana luce: sembravano soli d’argento che sorgessero a mezzogiorno.
«Sposami, Gilgamesh. Diventa mio marito.»
Restai stupefatto.
Con voce esitante, dissi: «Ma non è la stagione giusta, Inanna! La Festa dell’Anno Nuovo sarà solo tra qualche mese, e…»
«Non sto parlando del Matrimonio Sacro,» disse con decisione. «Parlo del matrimonio tra uomo e donna, che vivono sotto lo stesso tetto, mettono al mondo dei bambini, e invecchiano insieme come marito e moglie.»
Se avesse parlato nella lingua del popolo della luna, non sarei stato più -stupito.
«Ma una cosa simile è impossibile,» dissi, quando ritrovai l’uso della parola. «Il Re… la Sacerdotessa… mai fin dalla fondazione della città… mai in tutta la storia del Paese…»
«Ho parlato con la Dea, e lei mi ha dato il suo consenso. Si può fare. So che è nuovo e strano, ma si può fare.» Fece un passo verso di me e mise le sue mani sulle mie. «Ascoltami, Gilgamesh. Diventa mio marito, fammi dono del seme del tuo corpo, non solo per una notte ma per tutte le notti. Diventa mio marito e io sarò tua moglie. Ascolta: ti porterò regali splendidi, e farò costruire per te un carro di lapislazzuli e d’oro, con le ruote d’oro e le corna di bronzo. Avrai Demoni della tempesta a trainarlo, invece che muli. La nostra casa sarà odorosa di cedri e, quando tu vi entrerai, la soglia e il palco ti baceranno i piedi.»
«Inanna…»
Non c’era modo di fermarla. Come se stesse recitando in trance, continuò: «Re, Signori e Principi si inchineranno davanti a te! Ti porteranno in omaggio tutto il raccolto delle montagne e delle pianure! Le tue capre avranno parti tripli, e le tue pecore partoriranno gemelli! L’asino che porterà i tuoi carichi sarà più veloce del mulo più veloce. Il tuo carro vincerà in ogni corsa. I tuoi buoi non avranno rivali, se solo diventerai mio marito, Gilgamesh!»
«Il popolo non lo permetterà,» dissi, confuso.
«Il popolo! Il popolo!» Il viso le si rabbuiò, e gli occhi divennero gelidi. «Il popolo non potrà impedircelo!» La sua stretta sulle mie mani si fece più serrata: mi parve di sentire scricchiolare le ossa. Con un tono strano e lento, disse: «Gli Dei sono adirati con te per l’uccisione di Huwawa: lo sai? Hanno intenzione di vendicarsi.»
«Non è vero, Inanna.»
«Ah, forse tu parli con gli Dei nello stesso modo in cui parlo io? Ti dico che Enlil è addolorato dalla morte del guardiano della sua foresta. Ti chiederanno un prezzo di sangue per quella morte. Ti faranno soffrire come soffre Enlil. Ma io posso proteggerti da questa vendetta: posso intercedere per te. Datti a me, Gilgamesh! Sposami! Io sono la tua sola speranza di pace.»
Le sue parole mi investirono come un torrente di acqua ghiacciata che non conosce pietà. Volevo fuggire da lei, volevo mettere la testa in un posto morbido e buio e dormire. Era tutta una follia. Sposarla? Non era possibile.
Pensai per un attimo a che cosa avrebbe significato dividere con lei il letto ogni notte, sentire il fuoco del suo alito contro la mia guancia, gustare la dolcezza della sua bocca. Sì, naturalmente, quale uomo avrebbe rifiutato simili gioie? Ma il matrimonio?- Con la Sacerdotessa, con la Dea? Non poteva sposarsi, né io potevo sposarla.
Anche se la città l’avesse permesso, io non avrei potuto sopportarlo. Ma la città non l’avrebbe permesso, la città si sarebbe immediatamente ribellata e avrebbe dato i nostri cadaveri in pasto ai lupi. Andare umilmente al Tempio con i miei doni nuziali, inginocchiarmi davanti a mia moglie perché sarebbe stata anche la Dea, la Regina del Cielo… no, no, sarebbe stata la mia rovina. Io sono il Re, e il Re non deve inginocchiarsi.
Scossi il capo come per dissipare la nebbia che si addensava nel mio spirito. Cominciai a capire la verità, e il suo piano mi divenne chiaro: era un insieme di avidità, libidine e invidia: Il suo scopo era mettermi nella sua trappola e farmi perdere il potere. Visto che non riusciva ad indebolire il potere del Re in nessun’altro modo, lo avrebbe indebolito attraverso il matrimonio. Poiché era una Dea, mi avrebbe fatto inginocchiare per lei come nessun uomo, certamente nessun Re, si inginocchia mai davanti alla moglie. La gente avrebbe riso di me per strada: nemmeno i cani mi avrebbero dato conto. Ma io non sarei mai diventato il suo servo, non avrei mai venduto la mia libertà in cambio del suo corpo. E tutte le sue ciance sulla rabbia degli Dei, che lei sola poteva stornare dalla mia persona… No, doveva essere una sciocca bugia detta solo per spaventarmi. Non mi sarei lasciato intimidire.
Quando tutte queste cose mi divennero chiare, mi assalì una rabbia violenta, simile ad un incendio estivo su una montagna. Forse era perché avevo vegliato tutta la notte, forse era il vino, forse era un Demone oscuro che era entrato nel mio spirito, o forse era solo perché ero colmo di orgoglio per la mia vittoria su Huwawa, ma divenni furioso. Mi liberai dalla stretta delle sue mani, la guardai dall’alto in basso e le gridai: «Tu sei la mia sola speranza, hai detto? Quale speranza mi offri, oltre alla speranza di dolori e umiliazioni? Che cosa potrei aspettarmi, se fossi così folle da sposarti? Tu porti solo pericoli e tormenti.»
Quelle parole amare si rovesciavano fuori dalla mia bocca: non volevo e non potevo fermarle.
«Chi sei? Un braciere che si spegne quando fa freddo. Una porta che non tiene fuori né il vento né la pioggia. Una ghirba sfondata che bagna chi la porta. Un sandalo che fa inciampare chi lo indossa?»
Mi guardò stupita, senza fiato, così come mi ero stupito della sua richiesta di matrimonio.
Continuai.
«Chi sei? Una scarpa che stringe il piede di chi la porta. Una pietra che cade da un parapetto. Pece che insozza la mano, un palazzo che crolla sui suoi abitanti, un turbante che non copre la testa. Sposarti? Sposare te? Ah, Inanna, Inanna, che stupidaggine, che follia!»
«Gilgamesh…»
«Quale speranza ha un uomo che cade nella trappola di Inanna? Il giardiniere Ishullanu… conosco la storia. Venne da te con cesti di datteri, tu lo guardasti, sorridesti con il tuo sorriso, e dicesti: «Ishullanu, vienimi vicino, fammi felice, toccami qui e toccami lì.» Lui si ritrasse, terrorizzato da te, dicendo: «Che cosa vuoi da me? Io sono solo un giardiniere. Tu mi gelerai come il gelo gela le giovani canne.» E quando udisti questo, lo trasformarsti in una talpa e lo gettasti in un tunnel sottoterra.»