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Lei disse, meravigliata: «Gilgamesh, è solo una storia sul la Dea! Non sono stata io, ma la Dea, tanto tempo fa!»

«È lo stesso. Tu sei la Dea, la Dea è te. I suoi peccati sono i tuoi, i suoi crimini sono i tuoi. Che cosa è accaduto agli amanti di Inanna? Il pastore che preparava dolci di farina per te e uccideva i teneri capretti: ti stancò e tu lo colpisti e lo trasformasti in un lupo. Ora gli altri pastori lo scacciano e i suoi cani gli mordono i polpacci…»

«È una favola, Gilgamesh, una leggenda!»

«Il leone che tu amasti: sette fosse scavasti per lui, e altre sette. L’uccello dai molti colori: gli spezzasti un’ala, e ora egli è nel bosco e piange: «La mia ala, la mia ala!» Lo frusta, lo sperone e la correggia, lo facesti galoppare per sette leghe e gli ordinasti di bere acqua fangosa…»

«Sei pazzo? Che cosa stai dicendo? Queste sono vecchie storie che narrano gli arpisti, leggende sulla Dea!»

Ero stato preso da una sorta di pazzia. Ma non mi placai. «Sei mai stata fedele a qualcuno dei tuoi amanti? E non mi tratterai come hai trattato loro?»

La Sacerdotessa apri la bocca per parlare, ma non ne uscì alcun suono, e nel silenzio dissi: «Che cosa ne è stato di Dumuzi? Raccontami di lui! Lo hai mandato negli Inferi.»

«Perché mi getti in faccia queste favole? Perché continui a rimproverarmi cose che non hanno nulla a che fare con me?»

La ignorai. Ero pazzo. «Non parlavo di Dumuzi il Dio,» dissi, «ma di Dumuzi il Re, che regnava in questa città ed è morto prematuramente. Sì, raccontami di Dumuzi! Dumuzi il Dio, Dumuzi il Re, e di Inanna la Dea, Inanna la Sacerdotessa: è lo stesso. Tutti i bambini conoscono la storia. Lei lo intrappola, se ne serve e trionfa su di lui. Ma tu non farai questo con me.»

Poi trattenni il fiato, mi asciugai la fronte e con voce completamente diversa dissi, molto freddamente: «Questo è il palazzo reale. Tu non hai mente da fare qui. Vattene. Vattene!»

Cercò di parlare, ma non trovò parole, solo balbettii irosi. Ansimò, barcollò e indietreggiò: gli occhi fiammeggianti, il viso arrossato. Sulla soglia si fermò un attimo e mi rivolse un lungo sguardo gelido. Poi disse con una voce calma e tranquilla, che sembrava salire dagli abissi degli Inferi: «Tu soffrirai, Gilgamesh. Te lo prometto. Proverai un dolore che supererà qualsiasi dolore tu abbia mai immaginato. Questa è la promessa della Dea.» E se ne andò.

24

Quell’anno, nel periodo della Festa dell’Anno Nuovo, il caldo dell’estate non passò, il vento fresco e umido, chiamato Inganno, non arrivò da sud, e non ci fu nessun segno di pioggia nel cielo settentrionale. Avevo molta paura, ma tenni per me l’inquietudine, non dissi niente nemmeno a Enkidu. Dopotutto, c’erano stati altri autunni secchi nel passato, e le piogge erano sempre arrivate prima o poi. Se pure quell’anno fossero arrivate poi, cionondimeno sarebbero arrivate. Almeno così credevo: così speravo. Ma la mia paura era grande, perché sapevo che Inanna era mia nemica.

La notte della cerimonia del Sacro Matrimonio, lei e io ci incontrammo faccia a faccia per la prima volta dopo la visita che mi aveva fatto al palazzo, quella volta all’alba. Ma quando arrivai nella lunga camera del Tempio per salutarla, i suoi occhi sembravano pietra levigata, e mi salutò con il silenzio di una pietra. E quando dissi: «Salve, Inanna,» lei non replicò, come deve fare Inanna, con le parole: «Salve, marito regale, fontana di vita.» Sapevo che il castigo si era abbattuto su Uruk, un castigo di sua mano.

Non sapevo cosa fare. Compimmo la cerimonia della presentazione sul portico del Tempio, eseguimmo i riti dell’orzo e del miele, andammo nella camera da letto e restammo davanti al letto di ebano intarsiato d’avorio e oro. In tutto quel frattempo non mi aveva detto nemmeno una parola, ma dai suoi occhi avevo capito che le il suo odio per me non era diminuito. Le ancelle-sacerdotesse le tolsero i fili di lapislazzuli e i pettorali, e aprirono il catenaccio della piastra che le copriva il ventre. La lasciarono nuda davanti a me, scoprirono il mio corpo, e uscirono dalla stanza. Lei era bella come sempre, ma non era illuminata dalla luce del desiderio, i capezzoli erano morbidi, la pelle non risplendeva della fiamma della sensualità. Non era l’Inanna che conoscevo da tanti anni, la donna dalla passione insaziabile. Restò accanto al letto con le braccia conserte e disse: «Puoi restare qui o andartene, come vuoi. Ma stanotte non mi avrai.»

«È la notte del Matrimonio Sacro. Io sono il Dio. Tu sei la Dea.»

«Io non farò entrare nel mio corpo il Re di Uruk questa notte. L’ira di Enlil ricade su Uruk e sul suo Re. Il Toro del Cielo sarà liberato.»

«Distruggerai il tuo stesso popolo.»

«Distruggerò la tua arroganza,» rispose lei. «Sono andata a inginocchiarmi davanti al Padre Enlil… io, la Dea! Padre, ho detto, libera il Toro del Cielo per abbattere Gilgamesh, perché Gilgamesh mi ha disprezzata. E ho detto a Enlil che, se non l’avesse fatto, avrei sfondato la porta degli Inferi e avrei svegliato i morti affinché divorassero il cibo dei vivi, e le moltitudini dei morti sulla Terra sarebbero state più numerose dei vivi. Enlil ha ceduto: mi ha detto che libererà il Toro.»

«Per la rabbia che hai contro di me, manderai anni di siccità ad Uruk? Il popolo morirà di fame.»

«C’è grano nei miei depositi, Gilgamesh. Il popolo ha pagato le decime alla Dea, e io ho conservato grano sufficiente per sette anni. Ho da parte il foraggio per il bestiame. Quando la fame colpirà, Inanna sarà pronta ad aiutare il suo popolo. Ma tu sarai già caduto, Gilgamesh. Ti avranno già deposto dal trono, per aver attirato l’ira degli Dei su Uruk.»

La sua voce era calma. Stava nuda davanti a me, come se non significasse nulla rivelare il proprio corpo, come se lei fosse solo la statua di se stessa, o io un eunuco. La guardai e non ci fu nulla che potessi dire o fare. Sé la Dea non si unisce al Dio nel Sacro Matrimonio, non ci saranno piogge; ma come potevo costringerla? Sarebbe stato peggio, se l’avessi costretta. Mi disse ancora: «Tu puoi restare o andartene, come vuoi.» Ma non avevo nessuna voglia di trascorrere la notte a tremare nella tempesta gelida della sua ira. Raccolsi le mie splendide vesti regali, le indossai e me ne andai dal Tempio, addolorato e impaurito.

Nel palazzo trovai Enkidu con tre concubine, che celebrava la notte del Matrimonio Sacro alla sua maniera. Fiumi di vino scuro correvano lungo il pavimento e pezzi semimasticati di carne arrostita erano sul tavolo. Molto sorpreso, disse: «Come mai sei tornato così presto, Gilgamesh?»

«Lasciami stare, fratello. Questa è una notte triste per Uruk.»

Non sembrò udirmi.

«Hai finito così presto con la tua Dea? Beh, allora, prenditi un paio delle mie!» E scoppiò a ridere, ma la sua risata si spense di colpo, quando vide l’espressione tetra del mio volto. Si liberò delle ragazze che gli erano aggrappate, venne da me, mi mise le mani sulle spalle e disse: «Che cosa c’è, fratello? Dimmi che cosa è accaduto!»

Glielo dissi.

«Se questo suo Toro verrà messo in libertà per le strade della città, beh, noi dovremo catturarlo e riportarlo nel suo recinto, non è vero? Non è così, Gilgamesh? Come possiamo permettere che un toro selvaggio corra Libero per Uruk?», disse. Scoppiò di nuovo a ridere e mi gettò le braccia al collo in un grande e goffo abbraccio. Per la prima volta quella sera il mio cuore si sollevò, e pensai che forse avremmo potuto resistere, forse avremmo potuto lottare con successo contro la Dea: io e Enkidu.