Ma la pioggia non venne. Giorno dopo giorno il cielo era un drappo di azzurro brillante dal quale il grande occhio di Utu ci guardava senza rimorso. Il vento bruciante era un coltello che affondava nella terra, lanciando in aria il fango secco delle rive del fiume e la sabbia del deserto grigio e giallo che si trovava al di là di Uruk. Nuvole soffocanti di polvere ci avvolgevano come sudari. L’orzo seccava nei campi. Le foglie delle palme si annerirono di polvere, e rimasero appese come ali di uccelli feriti. Arrivarono il tuono e il fulmine, e terribili lampi di luce coprirono la terra come un manto. Ma le tempeste erano tempeste secche, e ancora non pioveva. Enlil era nostro nemico. Inanna era nostra nemica. An ci ignorava. Utu non ci ascoltava. Il popolo si raccoglieva nelle strade e urlava: «Gilgamesh, Gilgamesh, dov’è la pioggia?» E che cosa potevo dire io?
Poi, lontano, ad oriente, la terra tremò, le colline rombarono e ci fu una tale esplosione di fiamme e di gas fetidi che le eruzioni di Huwawa al confronto sembravano una brezza dolce e lieve. Avevo un’armata di mille uomini in quel territorio a controllare il punto da dove gli Elamiti scendevano nel nostro dominio, e di quei mille solo meno di una metà tornò ad Uruk.
«Era il Toro del Cielo messo in libertà,» mi dissero. «Il cielo si è oscurato, si è alzato un fumo nero, una frana è venuta giù, e noi abbiamo visto il Toro in aria sopra le nostre teste. Tre volte ha sbuffato: con il primo sbuffo ha ucciso cento uomini, altri cento con il secondo, e con il terzo altri duecento. La terra tremava, le colline rombavano, e il Toro del Cielo soffiava un alito fetido su di noi. Quel tanfo l’abbiamo ancora nelle narici. E ora il Toro marcia su Uruk.»
Che cosa dovevo fare? A chi potevo rivolgermi?
«È il Toro,» gridava la gente. «Il Toro ci assale!»
«Il Toro pascola ancora nel recinto del Tempio,» dissi. «Tutto andrà bene. Queste tribolazioni presto finiranno.»
E guardavo verso il cielo accecante e dentro di me dicevo a Lugalbanda, Padre, padre, va’ da Enlil, chiedigli di far piovere. Ma la pioggia non arrivava.
Inanna era chiusa nel suo Tempio. Non accettava petizioni, non eseguiva riti. Quando il popolo si raccolse davanti alla Piattaforma Bianca a chiedere misericordia, lei mandò fuori le ancelle a dire che erano andati nel posto sbagliato, che sarebbero dovuti andare da Gilgamesh a chiedere misericordia, perché era stato Gilgamesh ad attirare il male sul paese. Tornarono da me. Ma che cosa potevo fare io?
Il vento diventò più violento. Nella città si diffuse la voce che quel vento era il vento degli Inferi, un vento-demone che portava i semi della morte e della decadenza dalla Casa della Polvere e delle Tenebre. Dissi che non era vero. Si sussurrava nella città che i pozzi erano maledetti e che presto si sarebbero riempiti di sangue, cosicché i vigneti e i boschetti di palme sarebbero diventati rossi. Dissi loro che non sarebbe successo. Si mormorava nella città che un’armata di locuste stava volando verso di noi dal nord, e che presto il cielo si sarebbe oscurato delle loro ali. Assicurai che non sarebbero venute.
Diedi al popolo il grano del mio deposito. Fornii il foraggio per il bestiame. Ma non era sufficiente: nemmeno appena sufficiente. Non è di competenza del Re dare il grano in tempi di siccità e carestia, è di competenza di Inanna. Ma Inanna rifiutò il proprio grano al popolo. Ciononostante il popolo non la odiò: lei aveva diffuso nella città la voce che Uruk doveva prima essere purificata, e solo dopo lei avrebbe aperto i propri granai ai bisognosi. Il popolo capì. Anch’io capii. Aveva intenzione di battermi.
E infine Inanna liberò il Toro entro i confini della città. Mi riferisco al toro che pascolava nel recinto del Tempio, quello che incarnava la potenza e la maestà degli Dei. Da ventimila anni, o da due volte ventimila, ci sono tori nel pascolo all’interno del Tempio di Inanna: grandi tori, tori potenti, tori giganti, che non hanno eguali nel Paese. Diventano grassi ed enormi con il grano del Tempio, e portano ghirlande di fiori freschi in ogni stagione. Ogni giorno gli vengono portate giovenche per il loro piacere e, quando muoiono — perché muoiono, perfino loro che recitano la parte di Toro del Cielo — vengono sepolti nel terreno del Tempio con riti degni di un Dio. Non so dirvi quanti tori vi siano stati sepolti nella storia di Uruk, ma credo che, se quel pascolo fosse arato, sì scoprirebbero un mare di corna.
Il toro non esce mai dal pascolo del Tempio, una volta che vi abbia preso dimora. Guardiani sona di vedetta giorno e notte perché questo non accada. E, sebbene il toro sbuffi come lo stesso Enlil, gratti il terreno, e si butti con tutta la forza contro il cancello, non riesce a liberarsi. Ma in quel giorno di metà inverno, quando la siccità era al culmine, il cielo era grigio per i turbini di polvere e i più sensibili avvertivano il fetore delle nere eruzioni che uscivano dagli orifizi delle Terre dei Ribelli, in quel giorno in cui la calamità era ormai un’abitudine ad Uruk, Inanna liberò il Toro del Cielo nelle strade della città.
Il grido di dolore e terrore che si alzò era diverso da qualsiasi altra cosa avessi mai sentito ad Uruk. Penso che quel grido risuonasse fino a Kish, penso fosse udito anche a Nippur. Forse perfino nelle terre degli Elamiti alzarono gli occhi e dissero: «Che cos’è quel grido spaventoso che si alza ad occidente?»
Nel mio palazzo tremai di disperazione e dolore. Mi parve che ormai dovessi andare da Inanna, inginocchiarmi, cederle, consegnarle la città, perché altrimenti la gente sarebbe morta, oppure io sarei stato detronizzato. Cominciò a sembrarmi che, dopotutto, dovevo essere responsabile di quella rovina che si era abbattuta su Uruk, che ero stato io e non Inanna a attirare quei mali sulla città, proprio come diceva lei. Forse gli Dei si stavano vendicando della morte di Huwawa. Forse avevo sbagliato a rifiutare di sposare la Sacerdotessa. Forse… forse… forse…
Non ero mai stato tanto disperato quanto quel giorno in cui il Toro di Inanna impazzava e sbuffava per le strade di Uruk. Fu Einkidu a sollevarmi da quello stato. Mi trovò che mi lamentavo nel palazzo, mi abbracciò e disse: «Su, fratello, perché ti lamenti? La liberazione è a portata di mano.»
«Non sai che il Toro del Cielo è sguinzagliato per la città?», gli chiesi.
«Sì, Gilgamesh, sì; il toro è sguinzagliato! E questo è il nostro momento. Possiamo far girate i venti secchi? Possiamo chiamare la pioggia dal cielo? No, non possiamo fare nessuna di queste cose: ma possiamo uccidere un toro, fratello. Possiamo sicuramente uccidere un toro. Alla fine Inanna ha versato tutta la sua ira in un solo vaso. Usciamo, Gilgamesh: rompiamo quel vaso.»
Gli occhi gli brillavano di eccitazione, e il corpo gli pulsava di forza. Presi coraggio dal suo vigore. Sorrisi per la prima volta da non so quanti giorni e lo abbracciai, finché Enkidu non gemette per la forza del mio abbraccio.
«Su, fratello,» disse, e uscimmo nelle strade secche e polverose a cercare il Toro del Cielo.
Era mezzogiorno. Le strade erano vuote in quel terribile calore, ma io non avevo bisogno di chiedere la strada per arrivare al toro. La sua presenza si annunciava nella città come il calore di un’incudine riscaldata: sentivo la sua vampa rossa scaldarmi il viso.
Anche ad Enkidu, in cui ancora vigeva la saggezza della vita selvaggia, succedeva la stessa cosa. Teneva il viso rivolto verso il vento, allargava le narici, girava la testa in modo che le orecchie raccogliessero tutti i suoni, poi indicava la direzione, e avanzavamo.
Nel Quartiere del Leone, per le, strade, era sparso lo sterco fresco del toro, con un’aura d’oro intorno, e le mosche dalla testa blu che vi ronzavano sopra non osavano toccarlo. Nel Quartiere della Canna trovammo tutti i carri dei mercanti rovesciati, e la mercanzia sparsa a terra, perché il toro era passato da quella parte. E nel Quartiere dell’Alveare, dove le strade si accalcano e c’è appena lo spazio per camminare, vedemmo i mattoni strappati dagli edifici laddove il toro era passato.