Poco più avanti ci imbattemmo in qualcosa di peggio: ciottoli macchiati di sangue, amari singhiozzi e gemiti, e un uomo e una dorma immobili come statue, con gli occhi vitrei. L’uomo stringeva fra le braccia il corpo dilaniato di un bambino. Un bambino di quattro, cinque anni, credo, che doveva essersi trovato sulla strada del toro. Pregai che Enlil avesse concesso al bambino una morte rapida, ma quale misericordia avrebbe potuto concedere il Dio alla madre e al padre?
Quando li oltrepassammo, la donna ci riconobbe. Senza dire una parola, tese le mani verso di me, come a pregarmi, O Re, ridammi mio figlio. Non potevo farlo. Per alleviare il suo dolore potevo darle solo il sangue del toro, ma non pensavo che sarebbe stato sufficiente.
Quella morte doveva essere addebitata a Inanna. È così che serve il suo popolo, pensai, uccidendone gli innocenti bambini con la sua bestia furiosa e vendicativa?
Enkidu e io ci affrettammo a seguire le tracce del Toro, con l’espressione seria, concentrata. Qualche istante dopo arrivammo in un grande spazio aperto chiamato Piazza di Ningaclass="underline" vedemmo il toro che si impennava con violenza come un vitellino giocherellone.
Era bianco — tutti i tori del Tempio sono bianchi — enorme, aveva gli occhi orlati di rosso e le corna lunghe e appuntite come lance, che si curvavano crudelmente, quasi come l’intelaiatura di una lira. Vidi gli spruzzi del sangue del bambino sugli zoccoli delle zampe anteriori e sul pasturale.
Quando ci avvicinammo, annusò il nostro sudore, si fermò, si girò, e ci guardò con degli occhi che ardevano come carbone. Sbuffò, scalpitò, abbassò la testa e si preparò a caricare. Enkidu mi guardò, e io guardai Enkidu. Insieme avevamo ucciso elefanti, leoni, e lupi. Avevamo perfino ucciso un Demone che eruttava dal terreno sotto forma di una colonna di fumo. Ma non avevamo mai ucciso un toro, e quello era un toro che stava assaggiando il primo momento di libertà dopo un lungo periodo di cattività. Era al culmine della sua potenza, e in lui c’era anche la potenza del Padre Enlil. Non ebbi dubbi che quel giorno quel toro fosse il Toro del Cielo, proprio come a volte la Sacerdotessa Inanna è la Dea Inanna, e il Re di Uruk è Dumuzi, il Dio dei campi. Trattenemmo il fiato e ci preparammo ad affrontare l’attacco, coscienti che non sarebbe stato un combattimento facile.
Gli feci un cenno con la mano.
«Vieni da noi,» dissi in un sussurro, cercando di rendere seducente la voce. «Vieni qui. Vieni. Io sono Gilgamesh, e questo è Enkidu mio fratello.»
Il toro scalpito e sbuffo. Quindi alzò la grande testa scuotendo le grandi corna. Poi caricò, correndo con grazia e maestà. Sembrava volare sulla logora pavimentazione in mattoni della Piazza di Ningal.
Enkidu, ridendo, mi gridò: «Che esercizio fisico sarà, fratello! Gioca con lui! Non abbiamo nulla da temere!»
Enkidu corse in una direzione, io in quella opposta. Il toro si fermò a metà di una falcata, fece perno su una rampa, roteò e caricò. Poi si fermò una seconda volta, fece perno su una zampa e roteò, alzando la polvere. Sembrò sconcertato quando cominciammo a guizzargli intorno, ridendo, battendoci le mani l’uno sulle spalle dell’altro. Il toro ci bagnò con la sua bava e ci sfiorò con la coda, ma non riusciva ad abbatterci, non riusciva a buttarci a terra.
Cinque volte caricò, e cinque volte lo scansammo, finché non fu infuriato e perplesso. Poi caricò ancora una volta, fece una finta con intelligenza diabolica, quindi ancora un’altra finta: cambiava direzione con la stessa agilità di un danzatore del Tempio, caricava ora in una direzione, ora in un’altra. Con violenza balzò su Enkidu con le corna abbassate. Ebbi paura che mio fratello sarebbe stato trafitto: ma no, quando il toro si avvicinò, Enkidu allungò le mani e agguantò le corna, una per mano. Si sollevò da terra con un salto e si girò a mezz’aria, cosicché, quando atterrò, si trovò sulla groppa del toro, afferrandosi ancora alle corna.
Poi cominciò un combattimento che il mondo non aveva mai visto. Enkidu sulla groppa del Toro del Cielo, aggrappato alle corna, girava la testa dell’animale da una parte all’altra. Il toro infuriato si alzava sulle zampe posteriori per buttarlo a terra, ma non ci riusciva. Io ero davanti, e guardavo il combattimento con gioia e delizia.
Mi sembrò che il mio amico avesse recuperato completamente l’uso della mano, a giudicare da come resisteva ad una potenza così enorme. Ma, anche se non l’aveva recuperata completamente, la sua forza era sufficiente a mantenere la presa. Il Toro non riusciva a liberarsi da Enkidu. Ruggiva, scalpitava, spruzzava bava dovunque, ma Enkidu continuava a reggersi.
Enkidu concentrò tutta la sua forza enorme nel domare il toro, nel costringerlo alla resa, e nel fargli abbassare la testa poderosa. Sentii una risata rimbombante di Enkidu, e gioii. Vidi le massicce braccia di Enkidu gonfiarsi per lo sforzo, e fui felice. Ma poi il combattimento ebbe una svolta. Il toro, avendo riposato per qualche momento, trovò nuove energie, e cominciò a saltare e scagliarsi, scagliarsi e saltare, sforzandosi con rinnovata ferocia di gettare Enkidu a terra. Temetti per il mio amico, ma Enkidu non sembrava spaventato. Si aggrappava, si reggeva, girava la grande testa del toro da una parte all’altra. Ancora una volta costrinse il toro ad abbassare il muso verso il terreno.
«Ora, fratello!», gridò Enkidu. «Colpiscilo, ora! Colpiscilo! Trafiggilo con la spada!»
Era il momento. Balzai in avanti, afferrai l’elsa della spada con entrambe le mani, la sollevai quanto più mi era possibile, poi l’abbassai. La infilzai tra la collottola e le corna, ficcandola in profondità. Il toro emise un suono simile a quello del mare quando si ritira per la bassa marea. La furia fiammeggiante dei suoi occhi fu appannata da un velo. Per un attimo restò completamente immobile, poi le zampe cedettero. Mentre cadeva, Enkidu balzò a terra accanto a me. Ridemmo, ci abbracciammo, restammo per qualche attimo accanto al toro moribondo finché non mori. Poi gli togliemmo il cuore e l’offrimmo a Utu il Sole.
Quando il sacrificio fu compiuto, mi guardai intorno, e ad occidente, sui bastioni della città, vidi delle figure sulle mura. Toccai un braccio di Enkidu e indicai.
«È la tua Dea,» disse.
Era la verità. Inanna e le sue ancelle erano sulle mura. La Sacerdotessa aveva certamente assistito alla battaglia con il toro: anche a quella distanza avvertivo il calore e la forza della sua ira. Unii le mani a coppa, le portai alla bocca e gridai: «Hai visto, Sacerdotessa! Abbiamo uccisa il tuo toro: la pioggia arriverà presto!»
«Guai a te,» replicò con una voce che sembrava uscire dagli Inferi. E alle ancelle e agli altri spettatori gridò: «Guai a Gilgamesh! Guai a colui che osa disprezzarmi! Guai all’uccisore del Toro del Cielo!»
Al che Enkidu rispose: «E guai a te, uccello del malaugurio! Eccoti la mia offerta!»
Con audacia recise i genitali del toro morto e li lanciò con tutta la sua potenza, in modo che i pezzi di carne sanguinante atterrassero sui bastioni, ai piedi della Sacerdotessa. Rise con la sua risata rimbombante e gridò: «Tieni, Dea! Questo ti calma? Se ti potessi prendere, ti avvolgerei nelle budella del toro!»
Nel sentire quell’empietà, ci maledisse di nuovo, sia Enkidu sia me. Le donne che le erano accanto, le Sacerdotesse, le ancelle, le cortigiane del Tempio, le fedeli, che erano venute con lei a vederci distruggere dal toro che ora era morto, si abbandonarono a grandi gemiti e lamenti.
25
Non le volli dare nemmeno la carcassa del toro da seppellire nel terreno del Tempio: avevo intenzione di negarle ogni cosa. Chiamai i macellai, feci tagliare le carne in pezzi e li feci distribuire ai cani della città, per mostrare il mio disprezzo per Inanna e il suo toro. Ma le corna le tenni per me. Le consegnai agli artigiani e agli armieri, che furono meravigliati dalla loro lunghezza e dal loro spessore. Ordinai loro di rivestirle con uno strato di lapislazzuli spesso due dita, poiché volevo appenderle alle mura del palazzo. Erano così grandi che avrebbero potuto contenere sei misure di olio: le riempii con gli unguenti più pregiati, che versai davanti al santuario di Lugalbanda, in onore del Dio mio padre, che mi aveva concesso questo trionfo.