Oltre la seconda porta, la pendenza del tunnel diventa più ripida e, se si fosse abbastanza folli da proseguire, alla fine si arriverebbe alla prima delle Sette Mura degli Inferi. Ognuna di quelle mura ha la sua porta. Il Demone Neti, Guardiano degli Inferi, le custodisce. Aldilà del settimo muro, c’è la dimora di Ereshkigal, Regina dell’Inferno, sorella di Inanna.
Fino a quel giorno infausto in cui decisi di compiere il rito della Chiusura della Porta, nessuno l’aveva attraversata per migliaia di anni. L’ultimo a farlo, per quanto ne sappia, era stata la Dea Inanna, quando aveva compiuto la sua infelice discesa nell’Inferno per sfidare il potere di Ereshkigal. Da allora in poi nessuno era entrato in quello spaventoso tunnel. Sebbene alziamo la porta dal terreno una volta ogni dodici anni per il rito che si chiama Apertura della Porta, durante il quale versiamo libagioni nel tunnel per propiziarci Ereshkigal e le sue orde di demoni, nessuno sano di mente farebbe più di un passo oltre la soglia.
Cominciammo la Chiusura della Porta, a mezzogiorno preciso, quando negli Inferi è mezzanotte. Pensavo che la maggior parte dei Demoni a quell’ora dormisse. La giornata era tiepida e luminosa, sebbene avesse piovuto nelle ore della notte. Enkidu era al mio fianco, e mia madre alle mie spalle: in circolo a me c’erano i sacerdoti di tutti i Templi della città e gli alti esponenti della Corte Reale.
L’unico grande personaggio di Uruk a non partecipare era Inanna. Era restata a rimuginare dietro le mura del Tempio che avevo costruito per lei. Aldilà del circolo dei dignitari, c’erano i Sacerdoti minori e centinaia di musici pronti a suonare fragorosamente i tamburi, i pifferi e le trombe, se gli spiriti avessero cominciato ad uscire dalla porta non appena l’avessimo aperta. E dietro di loro c’erano tutti i comuni cittadini di Uruk.
Feci un cenno di assenso a Enkidu. Il mio amico mise la mano sinistra sull’anello della porta, io misi la destra, e la sollevammo. Sebbene si dicesse che fosse un compito gravoso aprire quella porta, noi la tirammo via dal terreno con la stessa facilità con cui avremmo sollevato una piuma. Dal buco uscì l’odore acre e stantio dell’aria vecchia. Avevo le mani fredde, la faccia tesa e indurita. Avvertivo il freddo della morte arrivare dagli Inferi. Guardai nel buco, ma non vidi nient’altro che buio dopo i primi passi.
Mi tenevo sotto stretto controllo. Ci sono luoghi che destano una tale paura che non osiamo pensare al pericolo. Agiamo senza pensare, perché pensare significa perdersi. Fu così che agii allora: diedi il segnale, e cominciammo la cerimonia.
Il rito che avevo ideato cominciava con un’offerta di semi di orzo aromatico, che lanciai io stesso nell’apertura. Se nel tunnel fossero stati in agguato degli esseri oscuri, forse si sarebbero accapigliati per l’orzo e non sarebbero usciti dalla porta aperta. Poi i Sacerdoti di An, Enlil, Utu e Enki, si fecero avanti e offrirono miele, latte, birra, vino e olio. Queste libagioni ci avrebbero assicurato la protezione degli Dei Maggiori. Una bambina, la figlia di un Sacerdote, arrivò con una pecora bianca. Io sacrificai l’animale con un rapido colpo della spada sull’altare sacrificale che Enkidu aveva eretto al bordo del tunnel. Ne sgorgò sangue di una lucentezza stupefacente, che corse lungo la tenera gola della creaturina. La pecora sussultò, sospirò, mi guardò tristemente e morì. Era un dono destinato al Guardiano Neti, affinché impedisse agli spiriti e ai Demoni di emergere nel nostro mondo. Col sangue mi tracciai una striscia rossa sulla fronte e un’altra lungo la guancia sinistra, per proteggere la mia persona.
Quando questi atti furono compiuti, i Sacerdoti e io ci inginocchiammo al bordo del tunnel e cantammo incantesimi di chiusura per intessere una rete di magia sull’apertura, come ultima linea difensiva. Sapevo che né la porta inferiore né la botola avrebbero avuto un effetto reale su uno spirito determinato a uscire. La porta e la botola erano utili solo a impedire che i vivi si perdessero negli Inferi, ma era solo con gli incantesimi che era possibile far restare gli abitanti del sottosuolo nel luogo cui appartenevano.
Ero spaventato. Quale uomo non lo sarebbe stato, nonostante mostrasse al mondo un’apparenza di coraggio? Gli Inferi mi stavano aperti davanti. Udivo le acque nere dei nascosti fiumi sotterranei lambire le invisibili rive. Il fumo acre e pungente dei vapori mortali si alzò e si avvolse in avide spire intorno a me. Eppure, per quanto fossi spaventato, ero anche eccitato, e colmo di audacia e determinazione. Ero Gilgamesh, che aveva detto quando ero ancora bambino: Morte, ti sconfiggerò! Morte, non ti sono da meno!
«Vi maledico! Maledico tutti voi che ci volete far del male, chiunque siate, voi il cui cuore concepisce la nostra disgrazia, la cui lingua pronuncia la nostra condanna, le cui labbra ci avvelenano, nei cui passi si cela la morte,» gridai. «Maledico la vostra bocca, maledico la vostra lingua, maledico i vostri occhi scintillanti, maledico i vostri piedi veloci, maledico le vostre ginocchia che si affaticano, maledico le vostre mani cariche. Con questi scongiuri vi lego le mani dietro alla schiena. Vi ordino di restare sottoterra, sia che siate fantasmi non sepolti, fantasmi di cui nessuno si cura, fantasmi per cui nessuno offre libagioni, sia che siate fantasmi senza discendenti, qualunque sia la causa che vi spinge a vagare. Nel nome di Ereshkigal e di Gugalanna, nel nome di Nergal e Namtaru, vi ordino di non oltrepassare mai quella porta. Per il potere di Enlil che è in me, per An e Utu, per Enki e Ninazu, per Allatu, per Irkalla, per Belit-seri, per Apsu, Tiamat, Lahmu, Lahamu…»
Questo fu il canto che salmodiai. Legai gli esseri del sottosuolo con tutti i Nomi Sacri, tranne uno, il nome di Inanna. Sebbene Inanna fosse la Dea patrona della città, non li legai nel suo nome. Sapevo che un simile legame non sarebbe servito a niente finché la Sacerdotessa di Inanna mi fosse stata nemica.
E poiché non li avevo legati nel nome di Inanna, non ero certo che i miei incantesimi avessero valore. Perciò avevo portato con me alla cerimonia il mio tamburo sacro, quello che l’artigiano Ur-nangar aveva costruito per me con il legno dell’albero di huluppu.
Avevo intenzione di suonarlo nella mia maniera particolare per cadere in trance davanti a tutto il popolo di Uruk, una cosa questa che non avevo mai fatto prima. In questo modo, avrei mandato il mio spirito nel tunnel, e mi sarei avventurato fino alle porte degli Inferi, perché quando ero in trance non c’erano barriere ai miei vagabondaggi. Così sarei riuscito a vedere con i miei occhi se i nostri incantesimi avessero veramente chiuso il passaggio alle terribili creature fatte di fumo e di vapore umido.
Dissi a Enkidu: «Dovrebbero aver luogo festeggiamenti e danze mentre sarò in trance. Da’ l’ordine: che i musici inizino a suonare.».
Quasi immediatamente, il suono delle trombe e dei pifferi riempì l’aria. Mi chinai sul tamburo e cominciai il battito lento e tranquillo che conoscevo così bene. Mi sentivo alla presenza del grande mistero dei misteri: la vita aldilà della vita che solo gli Dei conoscono.
Persi la coscienza del solito mondo circostante. C’erano solo il mio tamburo e la bacchetta, e il costante ritmo sottile del mio battito. Prese possesso della mia anima. Mi catturò, mi sollevò. Vidi un’aura uscire dal tunnel, alzarsi come una fiamma, fredda e blu. Nelle orecchie sentivo un ronzio, un cigolio. Avvertivo qualcosa muovermisi dentro, come se una creatura selvaggia si agitasse nel mio corpo. Il respiro mi si accelerò, la vista si oscurò. Traboccava, un mare si alzava dentro di me, usciva fuori e mi ingoiava.
Ma proprio mentre l’estasi stava per impossessarsi di me e mi preparavo a uscire dal corpo, si alzò un urlo alle mie spalle che mi tagliò l’anima come un’ascia taglia il legno, e mi strappò dalla trance. Era un grido acuto, rauco, penetrante e selvaggio, che si ripeteva senza sosta.