«Utu! Utu! Utu!»
Per tutti gli Dei, che grido! Quel suono ultraterreno mi fece sobbalzare, mi scosse e mi stordì. Caddi a capofitto in avanti, come se fossi stato colpito alle spalle. Enkidu mi afferrò e mi trattenne, altrimenti sarei precipitato nel tunnel. Ma il tamburo e la bacchetta mi caddero dalle mani paralizzate. Le vidi con orrore sparire nella buia imboccatura del mondo del sottosuolo.
Immediatamente, senza pensarci, cominciai a strisciare nel tunnel. Ma Enkidu, che ancora mi tratteneva per le spalle, mi tirò indietro con violenza e mi buttò da una parte come fossi un sacco di orzo.
«Non tu!», gridò adirato. «Tu non devi andare in quel luogo, Gilgamesh!»
E, prima ancora che riuscissi a dire o a fare qualcosa, Enkidu corse lungo gli scalini che portavano sottoterra, e scomparve in quel pozzo buio.
Sbalordito, guardai il punto in cui era scomparso. Non riuscivo a parlare. Tutt’intorno c’era un silenzio soffocante: i musici erano immobili, i danzatori erano fermi. In quel silenzio si alzò un unico suono, un singhiozzare soffocato o un gemere che proveniva da una bambina di otto o dieci anni che si contorceva a terra, trattenuta da uno dei Sacerdoti.
Era lei che aveva urlato in quella maniera terribile e aveva interrotto la mia trance. Compresi che il ritmo del mio tamburo doveva aver agito sulla sua anima come sulla mia, ma con potenza maggiore. Il suono del tamburo non le aveva provocato l’estasi, ma un terribile accesso convulso, per la cui violenza la sua mente aveva ceduto. Le convulsioni della bambina continuavano. Erano spaventose da guardare.
E Enkidu? Dov’era Enkidu? Tremante, guardai nel tunnel, e vidi solo buio. Ritrovai la voce e gridai il suo nome, o piuttosto lo gracchiai, ma non udii niente. Chiamai di nuovo, a voce più alta. Silenzio. «Enkidu!» gridai, e fu un lamento di dolore e di perdita. Ero certo che fosse stato catturato dai servi di Ereshkigaclass="underline" forse l’avevano già portato negli Inferi. «Aspetta!», strillai. «Ti raggiungo!»
«Non devi,» disse mia madre con durezza, e subito tre o quattro uomini mi presero per le braccia, pronti a tirarmi indietro. Se avessero cercato di trattenermi, li avrei lanciati nel fiume, oltre le mura della città. Ma non ce ne fu bisogno perché, proprio in quel momento, sentii dei colpi di tosse soffocati provenire dal tunnel, e Enkidu risalì lentamente il pendio. Teneva fra le mani il mio tamburo e la bacchetta.
Aveva un aspetto spettrale. Sembrava che fosse tornato dal mondo dei morti. La pelle aveva perso ogni colore: la faccia sembrava sbiancata con la calce, tanto era pallido. I capelli e la barba erano grigi di polvere, e la tunica bianca era insudiciata. Aveva grandi ragnatele aggrovigliate intorno al corpo, e perfino intorno alla bocca: cercava di scostarle con le spalle mentre usciva alla luce.
Restò per un attimo stordito e abbagliato. Negli occhi aveva un’espressione così selvaggia, così strana, che feci fatica a riconoscere in lui il mio amico. Le persone che mi erano accanto indietreggiarono. Io stesso sentii l’impulso di allontanarmi da lui.
«Ti ho riportato il tamburo e la bacchetta, Gilgamesh,» disse con una voce che faceva pensare alle ceneri. «Erano caduti lontano: erano oltre la seconda porta. Ma ho camminato carponi finché non li ho toccati nel buio.»
Lo guardai, terrorizzato.
«È stata una pazzia. Non saresti dovuto entrare in quel tunnel.»
«Ma tu avevi lasciato cadere il tuo tamburo,» disse, con quello stesso strano bisbiglio. Rabbrividì, si strofinò una spalla contro la faccia, tossì e starnutì per la polvere. «Dovevo cercare di riportartelo. So quanto sia importante per te.»
«Ma i pericoli… le creature malvagie…» Enkidu si strinse nelle spalle.
«Tieni il tuo tamburo, Gilgamesh. Ecco la tua bacchetta.»
Li presi, ma non mi sembrarono gli stessi. Era come se avessero perso undici dodicesimi del loro peso: erano tanto leggeri che pensai mi sarebbero volati via dalle mani. Enkidu annuì.
«Sì,» disse. «Sono diversi ora. Penso che la forza del Dio li abbia abbandonati: è un posto terribile, laggiù.» Rabbrividì ancora. «Non vedevo niente. Ma, mentre strisciavo, sentivo rumore di ossa che si frantumavano sotto il mio peso. Ossa vecchie e secche. C’è un tappeto di ossa in quel tunnel, Gilgamesh: ci sono andate altre persone prima di me. Ma io credo di essere stato il primo ad uscirne.»
Nell’aria c’era qualcosa che ci separava come una tenda. La stranezza che lo aveva colto in quell’altro mondo ora divideva la sua anima dalla mia. Sentivo di non poterlo raggiungere. Mi sembrava di non conoscerlo più. Un senso di perdita irrecuperabile assalì il mio animo: l’Enkidu che avevo conosciuto era scomparso. Era stato in un luogo in cui io non osavo andare ed era tornato con una conoscenza che non ero in grado di comprendere.
«Dimmi che cosa hai visto laggiù. C’erano Demoni?»
«Te l’ho detto: era buio. Non ho visto niente, ma ho avvertito la loro presenza. Li sentivo tutt’intorno a me.» Indicò con un gesto il tunnel che si spalancava. «Dovresti chiudere quel pozzo, fratello, e non riaprirlo mai più. Chiudi la porta, chiudila ancora, e richiudila altre sette volte.»
Pensai che sarei scoppiato di rabbia a vederlo così distrutto solo per aver salvato il mio tamburo. Come potevo tornare indietro? Tenermi stretto al tamburo per non farlo cadere in quel tunnel, o tenermi stretto a Enkidu per non farlo correre dietro al tamburo? Ma tutto quello che era accaduto era inciso per sempre nel libro del tempo. Con amarezza dissi: «La chiuderò, sì. Ma è troppo tardi, Enkidu! Se solo tu non fossi sceso in quel tunnel…»
Sorrise debolmente.
«Lo farei di nuovo per te, se fosse necessario. Ma spero di non doverlo rifare.» Poi mi si avvicinò: sentii il tanfo secco della polvere e delle ragnatele che lo coprivano. Con una voce che faceva pensare ad una candela spenta, disse: «Non ho visto niente mentre ero negli Inferi perché era tutto buio. Ma ho visto una cosa con il cuore e non con gli occhi: ero io, Gilgamesh, il mio corpo, che i vermi divoravano come se fosse stato un vecchio mantello. Erano le mie ossa che ho frantumato in quel tunnel. E ora ho paura, vecchio amico. Ho molta paura.» Mi poggiò le braccia sulle spalle e mi abbracciò, sporcandomi di polvere. Con gentilezza concluse: «Mi dispiace che il tuo tamburo abbia perso la forza del Dio. Avrei voluto riportartelo sano e salvo, se avessi potuto. Lo sai: avrei voluto riportartelo sano e salvo.»
26
Penso che la malattia di Enkidu cominciasse il giorno seguente. Si lamentò che la mano, quella che si era ferita nel forzare la porta nella foresta dei cedri, era ghiacciata. Un paio d’ore dopo, disse che il braccio era rigido e gli doleva. Poi si lagnò di avere la febbre, e si mise a letto.
«Tutto è come aveva previsto il mio sogno,» mi disse in tono triste. «Gli Dei si sono riuniti in consiglio, e hanno decretato che devo morire io, perché tu sei il Re.»
«Tu non morirai,» dissi con rabbia e con affetto nella voce. «Nessuno muore per un dolore al braccio! Devi esserti fatto male di nuovo mentre strisciavi in quel fetido tunnel. Ho mandato a chiamare i guaritori: ti faranno guarire prima del crepuscolo.»
Scosse la testa.
«Ti dico che sto per morire, Gilgamesh.»
Mi faceva impazzire dalla paura sentirlo così stanco e debole. Stava cedendo al Demone che si era impossessato di lui, e questo non era da lui.
«Non lo permetterò!», gridai. «Non ti lascerò morire!» Mi inginocchiai accanto al suo letto. Aveva il volto arrossato e la fronte lucida; di sudore. Con ansia gli dissi: «Fratello, non posso perderti. Ti prego, non parlare più di morire. I guaritori stanno per arrivare, e ti restituiranno la salute.»
Lo vegliai come una leonessa veglia i cuccioli. Mormorava, gemeva, aveva gli occhi velati. Disse che gli faceva male la testa, la bocca gli doleva, gli occhi lo facevano soffrire, le orecchie gli ronzavano. La gola gli si chiudeva, i muscoli del collo gli facevano male. Il petto, le spalle e le reni gli dolevano. Le dita erano rigide, lo stomaco era infiammato, l’intestino era bollente. Le mani, i piedi e le ginocchia erano doloranti. Non c’era una parte del corpo che non gli facesse male. Tremava, nella morsa della morte o della paura della morte, e per amor suo anch’io sentivo la stessa paura.