Nel vederlo in preda a quel terrore mortale, ricordai la mia mortalità, che mi tormentava come un coltello infitto nel mio corpo. Era la vecchia nemica e, sebbene non fosse venuta a chiamare me ma il mio amico, aveva ridestato la paura che avevo di lei. Ero deciso, però: avevo già deciso di non cedere alla morte, né di lasciarle prendere Enkidu.
Feci tutto quello che mi sembrava utile. Forse era la presenza del tamburo nel palazzo a farlo soffrire, pensai, poiché aveva portato sulla terra la contaminazione degli Inferi. Non lo sapevo per certo, ma non volevo correre il rischio. Il tamburo mi era divenuto odioso ormai. Ordinai ai Sacerdoti di portarlo all’esterno delle mura della città e di bruciarlo, seguendo i riti che avrebbero allontanato gli spiriti maligni. La sua perdita mi addolorò molto, ma non volevo tenerlo con me, se faceva ammalare Enkidu. Di conseguenza, il tamburo fu bruciato. Ma Enkidu non guarì.
I genitori arrivarono, e arrivarono i divinatori e gli esorcisti più abili della città. Il primo a visitarlo fu il vecchio Namennaduma, il Sacerdote-baru Regale, il Grande Divinatore. La sua consultazione fu lunga, studiò Enkidu per molte ore, poi consultò i presagi in modo da poter fare una diagnosi e una prognosi preliminari. Quindi mi chiamò nella camera del malato e disse: «C’è un grave pericolo.»
«Allontanalo, veggente, altrimenti ti troverai tu stesso in un pericolo ancora più grave,» dissi.
Namennaduma doveva già aver udito minacce simili: le mie parole aspre non sembrarono turbarlo. Con calma replicò: «Lo cureremo. Ma dobbiamo saperne di più. Stanotte consulteremo le stelle, e domani divineremo con il fegato di una pecora. Poi può cominciare la cura.»
«Perché aspettare tanto tempo? Divina oggi!»
«Oggi non è un giorno favorevole,» disse il Sacerdote-baru. «È un momento sfortunato del mese, e la luna è sfavorevole.»
Non potevo ribattere a queste argomentazioni. Poi, quando se ne fu andato a studiare le stelle, nella stanza entrò l’azu, il conoscitore delle acque, l’uomo delle medicine. Questi toccò con una mano il petto e le guance di Enkidu, annuì, aggrottò le sopracciglia e prese delle polveri dalla tasca. Quindi mi disse, come se io stesso fossi una specie di azu: «Gli daremo la polvere di anadishsha e i semi di duashbur, mescolati nella birra e nell’acqua. Gli farà scendere la febbre. E, per i dolori, gli daremo il sedimento di vino essiccato e l’olio di pino, ridotti in poltiglia. E, per aiutarlo a dormire, i semi polverizzati di nigmi, e un estratto delle radici e del tronco di arino, combinati con laserpizio e timo, nella birra.»
La speranza mi tolse il fiato.
«E guarirà, allora?», chiesi.
Con voce alquanto irritata, il conoscitore delle acque replicò: «Sentirà meno dolore, e la febbre calerà. La guarigione verrà in seguito, se mai verrà.»
Quella notte Enkidu dormì poco, e io non dormii affatto.
La mattina ritornò Namennaduma. Aveva il volto scuro, ma si rifiutò di dire che cosa aveva visto nelle stelle. Quando gli ordinai di dirmelo, si limitò a guardarmi come se fossi un pazzo.
«Non è una prognosi semplice,» disse, e si strinse nelle spalle. «Dobbiamo compiere la divinazione con il fegato, adesso.»
Una statua del Dio-Guaritore Ninib, figlio di Enlil, fu portata nella stanza. Una pecorella bianca venne legata di fronte alla statua. Guardai quell’animaletto dagli occhi tristi, come se avesse un potere di vita e di morte sullo stesso Enkidu. Namennaduma eseguì preghiere, purificazioni e libagioni, e uccise la pecora, poi, con colpi rapidi e decisi, le aprì il ventre e ne trasse il fegato fumante, che esaminò con la perizia dei suoi sessant’anni di esperienza. Studiò la posizione che occupava all’interno del ventre della pecora — «il palazzo del fegato,» la definì — e poi esaminò con cura il fegato stesso, i lobi, le vene, le tacche e le protuberanze simili a piccole dita. Alla fine alzò gli occhi su di me e disse: «Lo shanu è doppio, e lo è anche il niru. È un cattivo presagio.»
«Trovane uno migliore,» dissi.
«Guarda qui: c’è un grumo di carne sul fondo del na.»
Sentii la rabbia montarmi dentro.
«E allora? Che cosa significa?»
Namennaduma rimase imbarazzato. Avvertiva l’agitarsi della mia ira violenta, e sapeva che cosa avrebbe potuto significare per lui. Ma se avevo sperato di spaventarlo per costringerlo a trovare un responso confortante, non ebbi successo. Con sincerità replicò: «Significa che una maledizione ha colpito il malato: morirà.»
La voce del divinatore mi colpì le orecchie come un maglio. Ormai ero fuori di me per la rabbia: il cervello mi rombava. Mi avvicinai per colpirlo. «Tutti moriremo!», ruggii. «Ma non ancora, non subito! Che tu sia maledetto, per tutti i tuoi vergognosi presagi! Guarda di nuovo, Sacerdote-baru. Trova la verità!»
«Ti devo ingannare con le parole che preferisci, allora?»
Pronunciò queste parole aspre con un tono così tranquillo e fermo che la rabbia mi abbandonò. Capii di essere alla presenza di un uomo forte e saggio, che non avrebbe tradito la verità della sua arte anche se ciò gli fosse costato la vita. Ripresi il controllo e, quando riuscii a parlare di nuovo con voce normale, dissi: «Voglio solo la verità. Non mi piace la verità che mi offri, ciononostante ammiro il modo in cui me la dici. Sei un uomo d’onore, Namennaduma.»
«Sono vecchio. Se tu ti arrabbi e mi uccidi, che cosa mi importa? Ma non mentirò per compiacerti.»
«Tutti i presagi sono cattivi?», chiesi, parlando con dolcezza, con gentilezza, quasi in tono di preghiera.
«Non sono buoni. Ma è un uomo di forza immensa: questo può ancora salvarlo, se seguiamo le procedure giuste. Non prometto niente, ma c’è una possibilità. Una possibilità molto piccola…»
«Fa’ tutto quello che è possibile. Salvalo.»
Il Sacerdote-baru mi posò con gentilezza una mano su un braccio.
«Capisci bene che è proibito ai medici curare un uomo il cui caso sia senza speranza. È una sfida agli Dei: non possiamo farlo.»
«Ne sono a conoscenza. Ma hai appena detto che c’è una possibilità di salvarlo.»
«Una piccolissima possibilità. Un altro divinatore potrebbe dire che il caso è senza speranza, e rifiutarsi di continuare. Ti dico questo, perché voglio ricordarti che è pericoloso andare contro il volere degli Dei.»
Lo interruppi con impazienza: «È pericoloso. Adesso fa’ entrare l’esorcista e il conoscitore delle acque, e affida loro il compito di curare mio fratello!»
E così si misero al lavoro.
Un’armata di guaritori circondò il letto di Enkidu. Alcuni si dedicarono ai sacrifici e alle libazioni: versarono latte, birra, vino, pane, frutta, in quantità sufficienti a nutrire legioni di Dei, e uccisero un numero enorme di arieti, capre e maiali di latte.
Mentre avevano luogo i sacrifici, l’Ashiptu, l’esorcista, cominciò gli incantesimi.
«Sono sette, sono sette, nell’Oceano sono sette,» salmodiava. «Ashakku è entrato nell’uomo, e gli ha dato la febbre. Namtaru è entrato nell’uomo, e gli ha dato la malattia. Lo spirito malvagio Utukka è entrato nell’uomo, e gli ha assalito il collo. Il demone malvagio Alu è entrato nell’uomo, e gli ha assalito il petto. Il fantasma malvagio Ekimmu è entrato nell’uomo, e gli ha assalito il ventre. Il diavolo malvagio Gallu è entrato nell’uomo, e gli ha assalito la mano. Il Dio malvagio Ilu è entrato nell’uomo, e gli ha assalito i piedi. Sono sette, sono malvagi. Questi sette insieme lo hanno aggredito: divorano il suo corpo come una fiamma. Contro di loro io pronuncio i miei incantesimi.»