Mentre l’esorcista salmodiava, io camminavo avanti e indietro nella stanza: contai i miei passi mille volte da una parete all’altra. Sentivo che il Dio aveva distolto lo sguardo da Enkidu: era una sofferenza terribile per me. Giaceva sul letto, con gli occhi annebbiati e il respiro affannoso, senza capire che cosa stesse accadendo.
I riti andarono avanti per ore. Quando i guaritori se ne andarono, restai accanto al letto. «Fratello!», mormorai. «Fratello, mi senti?» Non sentiva niente. «Gli Dei hanno deciso di risparmiarmi la vita, ma tu sei il prezzo che devo pagare! È vero? Ah, è troppo, Enkidu!» Non disse niente. Cominciai a pronunciare le parole del grande lutto, con lentezza, con voce esitante, ma non andai molto avanti. Era troppo presto per dire quelle parole per Enkidu: non ci riuscivo. «Fratello, mi lascerai?», chiesi. «Ti rivedrò mai?»
Enkidu non mi sentiva. Era perso in sogni febbricitanti.
Durante la notte si svegliò e cominciò a parlare. La voce era chiara, e la mente sembrava chiara, ma non diede alcun segno di accorgersi della mia presenza. Parlò di quella volta che si era ferito la mano nella foresta di cedri, per risparmiare la porta. Disse a voce alta che, se allora avesse saputo che sarebbe stato colpito da una malattia simile in conseguenza del suo atto, avrebbe alzato l’ascia e avrebbe spaccato quella porta come una tenda di canne. Poi parlò con amarezza del cacciatore Kuhninda, che lo aveva scoperto nella steppa. «Io lo maledico, perché mi ha messo nelle mani del popolo della città!», gridò, con una voce rauca e folle che mi spaventò. «Che perda tutte le sue ricchezze! Che gli animali caduti nelle tue trappole scappino tutti via! Che gli sia negata ogni gioia!»
Restò in silenzio per un attimo, poi si alzò a sedere di scatto e riprese a delirare, questa volta sulla Prostituta Sacra Abisimti: «Maledico anche quella donna!» Era un uomo semplice e selvaggio, disse, e lei lo aveva costretto a vedere la realtà così come la vedono gli uomini della città. Non aveva mai sentito dolore, solitudine, o la paura della morte, finché lei non gli aveva fatto capire che questi sentimenti esistevano. Perfino la gioia che lei gli aveva dato era corrotta, disse Enkidu: perché, adesso che stava per morire, sentiva un atroce dolore al pensiero di perdere quella gioia. Ma se non fosse stato per Abisimti, sarebbe rimasto inconsapevole e innocente. Con amarezza concluse: «Questa sia la sua condanna per tutto il tempo a venire: vagherà per sempre per le strade! Si fermerà all’ombra delle mura! Gli ubriachi la colpiranno e la useranno per scopi ignobili!» Quindi rotolò verso la parete, tossendo, gemendo. Poi si calmò.
Aspettavo, con il timore che il prossimo ad essere maledetto sarebbe stato Gilgamesh. Lo temevo, anche se sapevo che la sua mente era sconvolta. Ma Enkidu non mi maledisse. Quando riaprì gli occhi, mi guardò e disse, con la sua voce normale: «Fratello, siamo alla metà della notte?»
«Penso di sì.»
«La febbre sta scendendo, forse. Stavo sognando?»
«Stavi sognando, sì; deliravi e parlavi ad alta voce. Ma le medicine devono aver cominciato a fare effetto.»
«Deliravo? Che cosa ho detto?»
Gli dissi che aveva parlato della porta che gli aveva ferito la mano, del cacciatore, della prostituta Abisimti, e che aveva maledetto tutti, perché lo avevano condotto alla morte.
Annuì. Il volto gli si oscurò. Per un momento non parlò, troppo turbato per farlo. Poi disse: «E ho maledetto anche te, fratello?»
Scossi la testa e risposi: «No, non mi hai maledetto.»
Il suo sollievo fu immenso.
«Ah. Ah. Avevo molta paura di averlo fatto!»
«Non l’hai fatto.»
«Ma se l’avessi fatto, sarebbe stata la febbre a parlare, e non Enkidu. Lo sai.»
«Sì. Lo so.»
Sorrise.
«Sono stato troppo severo, fratello. Non è stata colpa della porta se mi sono fatto male. Né è colpa di Ku-ninda se sono caduto in trappola. Né è colpa di Abisimti. È possibile revocare le maledizioni, secondo te?»
«Penso che sia possibile, fratello.»
«Allora revoco le mie. Se non fosse stato per il cacciatore e per la donna, non ti avrei conosciuto. Non avrei imparato a mangiare il pane degli Dei, e a bere il vino dei Re. Non mi sarei vestito di nobili tuniche, e non avrei avuto il glorioso Gilgamesh per fratello. Allora, che il cacciatore prosperi. Sì, e la donna, che nessuno la disprezzi. Che Re, Principi e Nobili la amino, e le regalino cornaline, lapislazzuli e oro, e dimentichino le loro mogli per lei. Che sia accolta dagli Dei. Ecco! Revoco le mie maledizioni!» Mi guardò con un’espressione strana, e con un tono diverso, chiese: «Gilgamesh, morirò presto?»
«No. I guaritori si stanno occupando di te. Ancora un po’ di tempo e tornerai come prima.»
«Ah. Ah. Come sarà bello alzarsi dal letto e correre e cacciare accanto a te, fratello! Ancora un po’ di tempo, hai detto?»
«Solo un altro po’.» Che cos’altro potevo dire? Perché non dargli un’ora di pace nella sua sofferenza? E in me stava nascendo la speranza di una sua guarigione.
«Dormi ora, Enkidu. Riposa.»
Annuì e chiuse gli occhi. Lo vegliai fino all’alba, quando anch’io mi addormentai. Fui svegliato dai guaritori che tornavano, portando gli animali per i sacrifici della mattina. Alzai subito lo sguardo su Enkidu. La ripresa della notte non aveva retto. Sembrava! avere di nuovo la febbre e delirava. Ma ci saranno molte ricadute, mi dissi, prima che venga liberato di questa malattia.
Quel giorno divinarono con l’olio e l’acqua: si raccolsero tutti in un piccolo circolo a osservare le forme che l’olio creava sull’acqua.
«Guardate,» disse uno, «l’olio affonda e risale!»
E un altro disse: «Si muove verso oriente. Si sparge e copre tutta la superficie.»
Non mi diedi la pena di chiedere che cosa significassero quei presagi. Ero ormai certo della guarigione di Enkidu.
Eseguirono su di lui gli incantesimi di Eridu. I Sacerdoti foggiarono una statuetta di Enkidu nella pasta del pane e la spruzzarono con l’acqua dell’incantesimo: l’acqua che dona la vita, l’acqua che purifica tutto. Con preghiere e rituali, lo liberarono di un Demone che entrò in un vaso di acqua. Ruppero il vaso e versarono il Demone nel camino. Trassero dal suo corpo un altro Demone sotto forma di una fune, a cui fecero alcuni nodi. Pelarono una cipolla, e ne buttarono una buccia dopo l’altra nel fuoco, un Demone dopo l’altro. Fecero ancora molti altri incantesimi simili.
Nel frattempo, anche il medico si mise al lavoro; tirò fuori le pozioni di cassia, di mirtillo, di assafetida e di timo, la corteccia di salice, di fico e di pero, il guscio della tartaruga di terra, la pelle di serpente polverizzata e tutto il resto. Tra le sue droghe curative comparvero sia il sale sia il salnistro, e poi la birra, il vino, il miele e il latte.
Notai che gli esorcisti guardavano con malignità il medico che mescolava le sue medicine, e lui restituiva gli sguardi con la stessa malignità. Senza dubbio, c’era rivalità tra loro, e ciascuno pensava di essere il vero guaritore. Ma io so che l’uno è inutile senza l’altro. La medicina allevia il dolore, attenua i gonfiori, fa calare la febbre, ma se, nello stesso tempo, i Demoni non vengono schiacciati, a che servono le pozioni? Sono i Demoni a portare le malattie.
Poiché sapevo che la malattia di Enkidu era arrivata per decreto degli Dei, per punirci del nostro orgoglio nell’aver ucciso Huwawa e aver distrutto il Toro del Cielo, pensavo che anch’io dovessi prendere le medicine. Forse in me si nascondeva la stessa malattia di Enkidu, sebbene a me ne fossero stati risparmiati gli effetti per ordine divino. E forse Enkidu non si sarebbe liberato della sua sofferenza, finché anch’io non fossi stato purificato.