Avrei voluto dirlo, ma egli non mi avrebbe udito, e una terribile tristezza mi assalì nel pieno della gioia e della pace. Avrei voluto piangere, ma non potevo, perciò non riuscii a liberarmi della mia tristezza.
Il mio cuore fu ripreso dalla disperazione. Non sapevo ritrovare la strada per tornare a quel momento di pace. Quel posto era bello, sì, ma io ero solo e non potevo dimenticarlo, e ogni respiro che facevo mi avvicinava solo alla morte. Così mi immersi ancora una volta nel dolore e nella tristezza, che era diventata il mio stato naturale.
Poi, in preda alla sofferenza, alzai gli occhi verso il sole e vidi Utu, il Dio luminoso, guardarmi. Gli inviai una piccola preghiera, la modesta supplica di arrecarmi un conforto. E mi parve di sentirlo rispondere: «Pensi che ci sia qualche speranza? Quanto hai viaggiato, Gilgamesh! E per che cosa? Non troverai mai la vita che cerchi.»
«Voglio trovarla, Grande Dio,» gli dissi.
«Ah, Gilgamesh, Gilgamesh, quanto sei folle!»
Cercai di guardare diritto nel cuore del Dio, ma non ci riuscii. Allora mi girai a guardarlo splendere nel grembo del laghetto, e al Dio nello stagno dissi: «Ascoltami, Utu! Ho attraversato tutte queste terre selvagge per niente? Devo semplicemente stendermi sotto la terra e dormire per tutti gli anni futuri? Fa’ che non sia così! Risparmiami il lungo buio, Utu! Fa’ che i miei occhi continuino a vedere il sole finché non ne avrò abbastanza!»
Penso che il Dio udisse la mia preghiera. Ma non saprei dirvi quale fu la sua risposta, perché non la udii. Dopo qualche istante, una nuvola oscurò la faccia del sole, e io non avvertii più la presenza del Dio. Allora mi alzai, mi avvolsi la sbrindellata pelle di leone intorno al corpo, e mi preparai a partire. Nonostante tutta la bellezza di quel luogo, non riuscivo a riprovare quel senso di gioia che avevo sentito per un breve intervallo. Ma anche la disperazione mi aveva lasciato. Ero calmo. Forse non sentivo assolutamente niente. Non è pace questa, ma è sempre meglio della disperazione.
Andai avanti, senza sentire niente, senza pensare niente. Qualche giorno dopo l’aria aveva un nuovo gusto, tagliente e strano, come il gusto del metallo sulla lingua. Era il forte odore del sale, era l’odore del mare. Il mio lungo pellegrinaggio si avvicinava alla conclusione. A giudicare dal gusto del sale nell’aria, dovevo essere vicino alla riva che è di fronte all’isola di Dilmun, dove abita l’eterno Ziusudra. Non avevo alcun dubbio.
32
Entrai nella città che si trova sulla costa di fronte a Dilmun. Avevo l’aspetto di un selvaggio, di un secondo Enkidu. Non è veramente una città: non è nemmeno la decima parte di Uruk, e non è delle dimensioni di Nippur o di Shuruppak. È solo una cittadina di mare, un villaggio, piuttosto. Un luogo dove vivono i pescatori, e coloro che riparano le reti dei pescatori. Ma a me sembrava una città, perché avevo trascorso molto tempo nelle regioni selvagge.
In realtà era un villaggio miserabile. Le strade non erano lastricate, i giardini erano radi e maltenuti, la salsedine divorava i mattoni delle case. Vidi una costruzione che mi parve un Tempio, che ad ogni modo, era costruito su una piccola piattaforma. Ma era una struttura piccola e malandata e non saprei dirvi il nome del Dio cui era dedicata. Dubito che fosse una delle nostre divinità.
Gli abitanti erano magri e scuri di pelle, e giravano praticamente nudi, fatta eccezione per una striscia di stoffa bianca messa intorno alla vita. Non avrebbero potuto indossare nulla di più pesante, perché faceva caldo quanto in piena estate nel Paese, ma lì non era ancora estate. Un villaggio poverissimo, eppure, per me era una città. Ne attraversai le strade con passo stanco: cercavo un alloggio e qualcuno che mi dicesse dove trovare un traghettatore che mi portasse a Dilmun.
Penso che un qualsiasi straniero avrebbe destato scalpore in quel sonnolento paesello. Pochi viaggiatori sono tentati di andarne a vedere gli splendori. I visitatori di qualsiasi tipo devono essere una rarità. A maggior ragione, era destinato a suscitare eccitazione un uomo di dimensioni gigantesche che marciasse lungo le strade malconce, con gli occhi da pazzo e la faccia sparuta, vestito di una pelle di leone e appoggiato ad un grande bastone appuntito.
Alcuni bambini mi videro per primi — corsero via spaventati — poi qualche ragazzino più grande, e infine, uno ad uno, tutti gli abitanti arrivarono a guardarmi e indicarmi. Li udii sussurrare. Parlavano una versione della lingua delle tribù del deserto, una lingua parlata in molti luoghi ai confini del Paese. Il modo in cui l’usavano non era molto simile al modo in cui viene parlata dalla razza del deserto che è venuta a vivere nelle città del Paese. Ma li capivo abbastanza bene.
Alcuni pensavano che fossi un Demone, altri un pirata naufrago, e altri un brigante. Dissi loro: «C’è un posto dove posso trovare da mangiare e da bere, e un letto per la notte?» Alle mie parole scoppiarono a ridere, forse era una risata nervosa, o forse era solo il mio accento barbaro. Ma poi una donna indicò una piccola costruzione bianca, più graziosa e meno malmessa delle altre, che sorgeva in una stradina curva e fangosa. Il vento mi portò l’odore della birra chiara: una taverna di marinai, pensai.
Mi avvicinai all’edificio bianco. Quando fui prossimo alla porta, apparve una donna che mi guardò con attenzione. Era alta e bella, con un paio d’occhi sagaci e franchi e un corpo robusto: le sue spalle erano larghe quasi quanto quelle di un uomo. Per un momento mi guardò come se fossi un lupo arrivato alla sua casa, poi con violenza mi chiuse la porta in faccia. Sentii che metteva un catenaccio.
«Aspetta: che cosa significa?», gridai. «Cerco solo un alloggio per la notte!»
«Qui non lo troverai,» disse dall’altra parte della porta.
«Questa è l’ospitalità del posto? Che cosa hai visto che ti ha spaventato tanto? Su, donna, apri, non ti farò del male!»
Restò in silenzio. Poi disse: «È la tua faccia che è spaventosa. È la faccia di un assassino, credo.»
«Un assassino? No, donna, nessun assassino, sono solo un viandante stanco! Apri! Apri!» E, nonostante la stanchezza, fui preso da una grande rabbia. Alzai il bastone e urlai: «Apri, altrimenti sfonderò la porta! La butterò giù!»
Diedi un colpo, poi un altro, e sentii il legno spaccarsi. Non sarebbe stato un compito difficile per me fracassarla. Diedi un terzo colpo, e quindi sentii aprire il catenaccio.
La porta si aprì e la donna mi fronteggiò, niente affatto spaventata. Le mascelle erano serrate, e le braccia erano ripiegate sul petto. Nei suoi occhi si leggeva una rabbia pari alla mia. Con voce aspra, mi disse: «Sai quanto costa una porta nuova? Con quale diritto cerchi di fracassarmi la porta?»
«Cerco alloggio, e mi hanno detto che questa è una taverna.»
«Sì, è una taverna. Ma non sono obbligata ad accogliere ogni ladrone vagabondo che arrivi in città.»
«Mi fai un’ingiustizia: vengo da lontano e il viaggio mi ha spossato, ma non sono un ladrone.» Presi alcuni pezzi d’argento dal sacchetto che portavo legato alla vita e glieli mostrai. «Se non vuoi farmi dormire qui stanotte, mi vendi almeno un boccale di birra?», le chiesi.
«Entra,» disse a malincuore.
Entrai, e lei chiuse la porta alle mie spalle. La stanza era fresca e buia. Ero felice di essere entrato. Le porsi uno dei miei pezzi d’argento, ma lei lo spinse via. Mentre mi versava la birra, mi disse: «Dopo, dopo. Non sono avida del tuo argento come hai l’aria di credere. Chi sei, viaggiatore? Da dove vieni?»