Rimasi male. Di rado mi ero sentito così imbarazzato. Arrossii. Mi inginocchiai per raccogliere le piccole colonne di pietra. Ma le avevo calpestate con troppo vigore. Erano sparse in mille pezzi, e non saprei dire quante ne avessi buttate a mare, ma sicuramente più di una. Intontito, raccolsi quelle che restavano. Sursunabu con un gesto mi disse che era inutile. «Ce la faremo senza le colonnine,» disse. «I rischi saranno maggiori. Ma, se sei figlio degli Dei, forse chiederai loro di assisterci durante la traversata.»
«Allora mi accompagnerai!»
«Che cosa me ne importa?» disse, e si strinse nelle spalle.
Siduri mi si avvicinò. Mi prese le mani fra le sue, premette i morbidi seni contro il mio torace. Con voce gentile disse: «Non avevo intenzione di disprezzarti, Gilgamesh. Ma penso che le mie parole fossero vere, per quanto aspre.»
«Forse sì.»
«Nonostante quello che ho detto, spero veramente che tu possa trovare quello che cerchi.»
«Ti ringrazio, Siduri. Per quest’augurio e per tutto il resto.»
«Ma se non dovessi trovarlo, puoi tornare qui. Ci sarà sempre un posto per te, Gilgamesh.»
«Ci sono molti posti peggiori in cui vivere,» le dissi. «Ma penso che non tornerò.»
«Allora addio, Gilgamesh.»
«Addio, Siduri.»
Mi abbracciò e pregò, rivolgendosi a una Dea che non conoscevo. Pregò affinché trovassi pace, affinché arrivassi presto alla fine dei miei vagabondaggi. L’unica pace che vedevo per me in quel momento era solo la pace della tomba, e sperai che Siduri non si riferisse a quella. Mi decisi ad interpretare la sua preghiera nel significato migliore, e la ringraziai per averla espressa.
Poi il barcaiolo mi fece cenno di salire nella sua maniera brusca e acida. Salii sull’imbarcazione e presi posto a prua, su delle stuoie di paglia. Il barcaiolo allontanò la barca dalla riva. Uscimmo in mare aperto, e solo allora il vecchio balzò accanto a me.
Silenziosamente, facemmo rotta per Dilmun. Gli Dei ci protessero, anche se avevo rotto le colonnine di pietra, e la traversata fu facile, sotto un cielo sereno. A lungo dondolammo in mare aperto. L’acqua non era più verde, ma blu, del blu profondo dell’oceano. Non si vedevano terre, né davanti né dietro di noi, e questo mi metteva a disagio. Non ero mai stato così lontano sull’acqua da non vedere più terra.
Tutt’intorno a me sentivo la presenza del Grande Abisso. Immaginai di poter vedere nell’acqua il potente Signore degli Abissi, il gigantesco Enki, nella sua tana. Immaginai di scorgere l’ombra delle corna della sua corona. E nel calore del giorno, rabbrividii, rabbrividii per essermi avvicinato troppo ai Grandi Dei. Ma rivolsi una preghiera a Enki: Io sono Gilgamesh, figlio di Lugalbanda, Re di Uruk, e cerco quello che devo cercare: risparmiami finché non lo trovo, Grande e Saggio Enki.
La mia preghiera si immerse nell’abisso e credo fosse ascoltata, perché all’imbrunire scorsi la sagoma oscura di un boschetto di palme all’orizzonte, e le mura bianche, di pietra calcarea, di una grande città, che splendevano agli ultimi raggi del sole. Davanti alle mura si vedevano numerose barche tirate a secco sulla spiaggia.
«Dilmun,» grugnì Sursunabu. Fu l’unica parola che pronunciò in tutta la traversata.
34
Vi restai cinque giorni, o forse sei, mentre aspettavo di essere ammesso alla presenza di Ziusudra. Furono giorni agitati. Da Sursunabu avevo appreso che il patriarca non viveva a Dilmun, ma che si era ritirato su una delle vicine isole minori, circondato da una compagnia di donne e uomini santi. Pochi venivano ammessi in pellegrinaggio a quell’isola: Sursunabu non avrebbe saputo dire se io sarei stato tra i fortunati. Nella sua maniera brusca e sbrigativa mi promise solo di riferire la mia richiesta. Poi partì, lasciandomi a Dilmun. Mi domandai se l’avrei mai rivisto.
Vi confesserò che non ero abituato a supplicare favori dai barcaioli, o a chiedere umilmente il permesso dì viaggiare. Ma dovetti impararlo, perché non c’era nessun’altra soluzione. Mi dissi che gli Dei avevano stabilito che superassi queste ulteriori difficoltà per entrare in una nuova fase della mia iniziazione alla vera saggezza.
In un’osteria nei pressi del porto trovai una piacevole sistemazione: una stanza grande, ariosa, che si affacciava sul mare, scaldata dal sole e rinfrescata dai venti. Nel Paese non costruiamo in questo modo, perché da noi sarebbe una follia fare aperture nelle pareti; ma i nostri inverni sono più rigidi di quelli di Dilmun. Non mi parve prudente rivelare la mia vera condizione in quel luogo, perciò al locandiere dissi di chiamarmi Lugal-amarku, che è il nome del piccolo Mago gobbo, di cui mi ero servito di tanto in tanto. A Dilmun mi servì senza saperlo.
Non sapevo come celare la mia altezza e l’ampiezza delle spalle, ma cercai di non avere un portamento regale, tenendo la testa bassa e incavando il torace. Non guardavo nessuno negli occhi, a meno che non mi guardasse per primo, e parlavo il meno possibile. Non saprei dire se qualcuno mi avesse riconosciuto ma, ad ogni modo, nessuno mi chiamò mai Gilgamesh.
La città pullulava di mercanti e di marinai di ogni nazione. Alcuni parlavano lingue che mi erano familiari: sentii spesso la lingua del Paese, e anche quella del popolo del deserto, che è anche l’idioma di Dilmun e delle regioni vicine. Ma altri emettevano incomprensibili balbettii, simili ai suoni inarticolati che a volte sentiamo nei nostri sogni. Non saprei dire come facessero a capirsi: una di queste lingue era composta solo di suoni metallici, starnuti e sbuffi. Un’altra scorreva come un torrente, una parola si univa all’altra senza interruzione, e una terza era più cantata che parlata, in una sorta di cantilena.
Non solo le loro lingue erano strane, ma anche le loro facce. Una nave, che arrivò il primo giorno, aveva una ciurma di uomini dalla pelle nera come l’ora di mezzo di una notte senza luna. Quegli uomini neri avevano capelli simili a lanugine, nasi ampi e piatti, labbra spesse: dovevano essere sicuramente Demoni oppure uomini di un altro mondo. Ma ridevano e si divertivano come normali marinai, e nessuno nel porto sembrava fare molto caso alla loro stranezza.
Proprio in quel momento passò un mercante i cui capelli erano rasati alla maniera del Paese. Lo fermai: ero certo che provenisse dalla città di Eridu. Gli indicai i neri e lui mi spiegò: «Sono sudditi del regno di Punt.» È un paese in cui l’aria è di fuoco e annerisce la pelle della gente. Non seppe dirmi dove si trovasse Punt; si limitò a indicare vagamente l’orizzonte.
Più tardi, vidi altri uomini dalla pelle nera che però avevano un aspetto completamente diverso. Avevano nasi e labbra sottili, e capelli lunghi e lisci, tanto neri da essere quasi blu. A giudicare dalla lingua e dal modo di vestirsi, pensai che venissero da Meluha, che si trova ad oriente di Elam. Scoprii di avere ragione. Speravo di vedere anche i Demoni dalla pelle gialla che hanno le miniere di pietra verde, ma a Dilmun non ce n’erano. Forse non esistono nemmeno, sebbene la pietra verde esista, e sia anche molto bella.
Parlavo poco e ascoltavo molto. E ricevetti notizie dal Paese che mi allarmarono molto.
Ne venni a conoscenza una sera nella mia taverna, mentre ero seduto per conto mio a bere birra chiara. Entrarono due uomini che parlavano la lingua del Paese. Sulle prime temetti che fossero di Uruk, ma indossavano tuniche scarlatte, orlate di giallo, uno stile tipico della città di Ur. Ciononostante, mi ingobbii per quanto mi fosse possibile, e mostrai loro le spalle. Dal loro accento compresi ben presto che erano veramente sudditi di Ur. Il più giovane era appena arrivato a Dilmun e l’altro gli chiedeva le ultime notizie del Paese.
«Dimmi,» disse il più anziano. «È vero che Nippur è nostra?»
«Sì.»
Mi raddrizzai di scatto nel sentire questa notizia, e restai senza fiato. Nippur è una Città Sacra: non dovrebbe essere dominata da Ur.