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Ebbi l’impressione che il cuore mi scoppiasse in petto. Per un attimo non riuscii a respirare, né a vedere, né a pensare. Tirai, mi dimenai, scalciai, e sentii un grugnito, scalciai di nuovo, e sentii un gemito. Uno dei due mollò la presa e io mi liberai dell’altro, e corsi fuori dell’aula, non per paura dei due bambini, ma per paura che li avrei uccisi in quel momento di follia.

Il maestro e il suo assistente stavano tornando proprio in quel momento dal loro pasto di mezzogiorno. Nella cecità della mia ira, corsi verso di loro. Mi afferrarono e mi trattennero finché non mi fui calmato. Indicai l’aula, dove Bir-hurturre e Zabardi-bunugga mi guardavano e mi facevano smorfie con la lingua, e chiesi che fossero immediatamente condannati a morte. Ma il maestro replicò solo che mi ero alzato dal mio posto senza permesso, che gli avevo parlato senza permesso, e mi affidò allo schiavo addetto alla fustigazione per punire la mia disciplina.

Non fu l’ultima volta che quei due mi tormentarono, e ogni tanto si aggiungeva anche qualcun altro, i più alti, almeno. Scoprii che non potevo fare niente contro quelle persecuzioni. Il maestro e il suo assistente prendevano sempre le loro parti, e mi dicevano che dovevo tenere a freno la lingua, e dominare il mio brutto carattere. Scrissi i nomi dei miei nemici, sia dei miei compagni sia dei miei insegnanti, in modo da farli scorticare vivi quando sarei diventato Re. Ma, quando cominciai a capire un po’ meglio le cose, poco dopo, gettai quegli elenchi.

Imparai come prima cosa a scrivere e a leggere. È importante per un Principe saperlo fare. Immaginate di affidare tutto all’onestà degli scribi e dei funzionari mentre i messaggi vanno avanti e indietro sui campi di battaglia, o quando si è impegnati in una corrispondenza con il Re di un altro paese! Se il Re non sa leggere, può essere ingannato in ogni modo, e può essere tradito e finire nelle mani dei nemici.

Mi piacerebbe poter dire che la ragione che mi spinse verso quelle arti fu così astuta e previdente. Ma nella mia mente non vi era nessun concetto così principesco. Quello che mi attirava verso la scrittura era la mia idea che fosse magica. Essere capaci di operare magie, quella magia oppure altre, mi attirava molto.

Mi sembrava miracoloso che le parole si potessero catturare come falchi in volo e imprigionarle in un pezzo di argilla rossa e che potessero poi essere liberate da chiunque ne conoscesse l’arte. All’inizio non credevo nemmeno che una cosa simile fosse possibile.

«Tu inventi le parole man mano», disse il maestro. «Fingi che ci siano dei significati, invece inventi tutto!»

Con freddezza porse la tavoletta all’assistente, che lesse le stesse parole che aveva letto l’insegnante. Poi chiamò uno dei bambini più grandi dall’altra aula, e fece la stessa cosa. E poi fui frustato sulle nocche delle mani per aver dubitato.

Non dubitai più. Quelle persone — comuni mortali, nemmeno Dei — avevano un metodo per far uscire le parole dall’argilla. Perciò prestai grande attenzione quando l’assistente del maestro mi mostrò come preparare le tavolette di morbida argilla, come assottigliare un bastoncino di canna fino a dargli la forma di un cuneo, come tracciare i segni che costituiscono la scrittura, premendo il bastoncino sulla tavoletta. E mi sforzai di comprendere i segni.

Sulle prime, comprenderli fu molto faticoso. I segni somigliavano alle impronte delle galline sulla sabbia. Imparai a riconoscere le differenze da cui derivava il loro significato. Alcuni dei segni rappresentavano suoni, na e ba, ma eccetera, e alcuni rappresentavano idee, come Dio, Re o aratro, e alcuni mostravano in che relazione bisognava intendere una parola rispetto alle parole vicine. Poi imparai questa meravigliosa stregoneria. Scoprii che quasi senza sforzo riuscivo a svelare il significato dei segni, cosicché ero in grado di guardare una tavoletta e leggere su di essa una lista di oggetti, «oro, argento, bronzo, rame», «Nippur, Eridu, Kish, Uruk», «freccia, giavellotto, lancia, spada». Naturalmente non saprei leggere come uno scriba, che fa scorrere rapidamente lo sguardo sulle colonne di una tavoletta e ne trae tutta la sua ricchezza di significati e di sfumature: è un compito per cui occorre la dedizione di tutta una vita, e io ho anche altri compiti. Ma imparai bene i segni della scrittura: li conosco ancora, e non potrò mai essere ingannato da nessun infido subalterno che intenda imbrogliarmi.

Ci insegnarono anche tutto quello che riguardava gli Dei, la creazione del mondo e la scoperta del Paese. Il maestro ci disse in che modo il Paradiso e la terra fossero emersi dal mare, e come il cielo fosse stato messo tra loro, e in che modo furono creati la luna, il sole e i pianeti. Parlò di An, luminoso e splendente padre del Cielo che decreta ciò che si deve fare, e di Ninhursag la Grande Madre, di Enlil il Signore della Tempesta. Ci narrò del Saggio Enki e di Utu il Sole Raggiante, la Fonte della Giustizia, e dell’Argentea Nanna, Dominatrice della Notte. E naturalmente ci parlò di Inanna, la Dominatrice di Uruk. Ma quando spiegò come fosse stato creato il genere umano, mi rattristai e mi adirai: non perché fossimo fatti per servire gli Dei, ma perché l’opera è stata compiuta con tanta crudeltà e trascuratezza.

Guardate, guardate come è stato portato a termine il lavoro, e quanto soffriamo per la stupidità dei nostri creatori!

Un tempo gli Dei vivevano sulla terra come mortali, coltivavano il suolo e si curavano del bestiame. Ma poiché erano Dei, non si degnavano di occuparsi dei loro compiti: di conseguenza il grano seccava, il bestiame moriva, e gli Dei avevano fame. Allora Nammu, la Madre del Mare, andò da suo figlio Enki, che viveva fra gli ozi nella terra felice di Dilmun dove il leone non uccideva e il lupo non mangiava l’agnello, e gli raccontò dell’afflizione e della pena degli altri Dei.

«Alzati dal tuo giaciglio», disse lei, «e usa la tua saggezza per trovare dei servi che si assumano i nostri compiti e soddisfino le nostre necessità».

«O madre mia», replicò, «è possibile».

Le disse di scendere nell’abisso e di raccogliere una manciata di argilla dalle profondità marine. Poi Enki e sua moglie, la Madre della Terra Ninhursag, e le otto Dee della nascita, presero l’argilla e la foggiarono, e formarono il corpo e gli arti del primo essere mortale. Allora Enki disse: «I nostri servi saranno così».

Enki e Ninhursag, per la gioia, diedero un grande banchetto per tutti gli altri Dei, e spiegarono come la creazione del genere umano avrebbe alleviato la loro vita.

«Vedete», disse «ognuno di voi avrà la sua proprietà sulla terra, e questi esseri si assumeranno i vostri compiti e soddisferanno i vostri bisogni. Questi saranno gli schiavi che lavoreranno: al di sopra di loro metteremo vice-controllori, controllori, ispettori e commissari, e al di sopra di questi ultimi ci saranno Re e Regine, che vivranno in palazzi come noi, con maggiordomi e ciambellani, cocchieri e cameriere. E tutte queste creature lavoreranno giorno e notte per servirci».

Gli Dei applaudirono, prosciugarono molti barili di vino e birra, e si ubriacarono tutti gloriosamente.

Nell’ubriachezza, Enki e Ninhursag continuarono a modellare esseri umani nell’argilla. Ne crearono uno che non aveva né organi maschili né organi femminili, e dissero che sarebbe stato un eunuco a guardia dell’Harem Reale, e ne risero molto. E poi crearono esseri con varie malattie del corpo e dello spirito, e li liberarono sulla terra. E alla fine ne foggiarono uno il cui nome era Nacqui-Molto-Tempo-Fa», i cui occhi erano offuscati e le cui mani tremavano, e che non poteva né sedersi né stare in piedi né inginocchiarsi.

In questo modo la vecchiaia, la malattia, la follia, e tutto ciò che è cattivo, arrivarono nel mondo: uno scherzo da ubriachi del Dio Enki e della Madre della Terra, sua moglie, la Dea Ninhursag. Quando la madre di Enki, la Madre del Mare Nammu, vide che cosa aveva fatto il figlio, lo esiliò nell’abisso profondo, dove vive ancora oggi. Ma il danno era stato fatto; gli Dei (ubriachi avevano fatto il loro scherzo, e noi ne soffriamo e ne soffriremo in eterno. Non discuto sul fatto che ci abbiano fatto per essere le loro creature e i loro oggetti, ma perché ci hanno creati così imperfetti?