«Sono Gilgamesh,» risposi.
Immediatamente al di fuori della stanza, mi aspettava un vecchio alto, dagli occhi vivaci, con la pelle scura. Era tutto piani e angoli. Anch’egli indossava una tunica di cotone e portava un bastone nero. Sembrava che il sole gli avesse cotto tutta la carne. Non saprei dire quanti anni avesse, ma sembrava molto vecchio, e io fui preso da un’improvvisa ondata di eccitazione. Tremante, balbettai: «È vero? Sto guardando Ziusudra?»
Il vecchio rise.
«No. Ma incontrerai lo Ziusudra a tempo debito, Gilgamesh. Io sono il Sacerdote Lu-Ninmarka; questa è Dabbatum. Vieni con noi.»
Era strano che avesse detto: lo Ziusudra. Ma sapevo di non dover chiedere spiegazioni. Mi avrebbero offerto spontaneamente delle informazioni, se lo avessero desiderato e quando lo avessero desiderato. Altrimenti non me ne avrebbero offerta nessuna. Di questo ero certo.
Mi condussero in una casa di grandi dimensioni, vicina al Tempio principale, dove mi venne consegnata una tunica bianca simile alle loro, e un pasto a base di lenticchie e fichi. Non lo toccai quasi: avevo digiunato così a lungo, credo, che il mio stomaco aveva dimenticato che cosa significasse avere fame. Mentre mi trovavo lì, arrivarono altri Sacerdoti a fare il loro pasto del mezzogiorno. Mi guardavano di sfuggita, senza parlare. Molti di loro sembravano vecchissimi, sebbene tutti fossero nerboruti, robusti e pieni di vitalità.
Dopo aver mangiato, pregarono davanti a un basso altare, su cui non c’erano statue. Poi andarono a lavorare nei campi. Anch’io feci la stessa cosa, quando Lu-Ninmarka e Dabbatum ebbero finito il loro pasto. La coppia mi fece un cenno, mi condusse all’esterno e mi consegnò un attrezzo.
Com’era bello lavorare in ginocchio sotto il sole caldo! Forse pensavano di mettermi alla prova: volevano vedere se un Re avrebbe eseguito il lavoro di uno schiavo. Se lo fecero a questo scopo, allora non avevano capito che alcuni Re trovano piacere nei lavori manuali.
Era la stagione della semina dell’orzo. Avevano già arato la terra in strisce larghe otto solchi, e avevano fatto cadere i semi a due dita di profondità. Camminai lungo i solchi per liberare il campo delle zolle più dure e per livellare il suolo con le mani, in modo che l’orzo, quando sarebbe spuntato, non avrebbe dovuto lottare con sporgenze o avvallamenti. Voi direte che non era un lavoro che richiedeva molta abilità, e avrete ragione, ciononostante ne ricavavo un grande piacere.
Dopo il lavoro, tornai nella sala da pranzo. Un altro vecchio… vecchissimo, avvizzito e incartapecorito, entrò dopo di me, e il cuore mi balzò in petto nel vederlo. Quello era finalmente lo Ziusudra? Ma uno dei presenti lo salutò chiamandolo Hasidanum: era solo uno dei Sacerdoti. Fece una libagione di olio, accese tre lampade, e si inginocchiò davanti ad esse. Per qualche tempo mormorò delle preghiere con una voce troppo flebile e tremula perché riuscissi a comprendere che cosa diceva. Poi mi spruzzò addosso un po’ d’olio.
«È per purificarti,» mi sussurrò Dabbatum, che mi era accanto. «Hai la corruzione del mondo sul corpo.»
Per il pasto serale c’erano di nuovo lenticchie e frutta, e una zuppa di cipolle e orzo. Bevemmo latte di capra. Non bevevano né birra, né vino, e non mangiavano carne. Il lavoro del pomeriggio mi aveva suscitato un poderoso appetito, e anche una gran sete, e mi afflissi per l’assenza della carne e della birra. Ma non ne facevano uso, e non le riassaggiai finché non lasciai l’isola.
Continuò in quel modo per qualche giorno. Non saprei dire per quanti giorni. Sull’isola di Ziusudra si vive in un tempo che è fuori del tempo. Lavoravo sotto il sole, mangiavo i miei semplici pasti, osservavo i Sacerdoti e le Sacerdotesse compiere i loro atti di devozione, aspettavo di vedere che cosa sarebbe accaduto. Cessai di preoccuparmi di Meskiagnunna, di Inanna, di Ur, di Nippur, e perfino di Uruk. La grande calma dell’isola ebbe di nuovo il sopravvento su di me, e questa volta perdurò.
A giorni alterni, si recavano al Tempio principale per i riti e le cerimonie principali. Poiché ero solo un novizio, non potevo prendervi parte, ma mi lasciavano inginocchiare accanto a loro mentre salmodiavano i testi sacri. Il Tempio era una enorme stanza dall’alto soffitto, priva di qualsiasi statua, con uno splendente pavimento di pietra nera e un soffitto rosso, di legno di cedro. Quando vi entrai la prima volta, mi aspettavo di trovarvi il patriarca, ma non c’era. Fu una brutta delusione per me. Ma imparai a contenere la mia impazienza: mi convinsi che non mi avrebbero ammesso alla presenza di Ziusudra finché fossi stato troppo ansioso di vederlo.
Sulle prime ascoltai i loro riti senza capire molto di quello che si diceva, dal momento che la lingua che usavano era antichissima. Era chiaramente la lingua del Paese, ma penso che la parlassero come la si parlava prima del Diluvio. Dopo qualche tempo, compresi in che modo le parole venivano messe una dopo l’altra. Compresi le differenze tra le parole antiche e le moderne, e il significato delle frasi mi divenne chiaro, o quasi chiaro. Durante quei riti, essi narravano la storia del Diluvio, ma la loro storia non somigliava affatto a quella che avevo sentito tante volte dal vecchio arpista Ur-Kununna.
Cominciava con la rabbia degli Dei, sì: irritazione per le maniere rumorose, litigiose e accidiose degli uomini. E allora gli Dei mandarono la pioggia per settimane e settimane. I fiumi entrarono in piena, strariparono, allagarono la pianura, squarciarono le mura delle città e travolsero le strade e le case. In tutto il Paese la distruzione fu grande e le perdite furono considerevoli.
Ma a questo punto la storia cominciò a divergere da quella che conoscevo, così come un sentiero sconosciuto si dirama da una strada molto trafficata, e mi portò in un luogo che mi era sconosciuto. Sentii il nome di Ziusudra e ascoltai con maggiore attenzione. E questo fu il racconto che udii: «Il saggio e misericordioso Enki andò da Ziusudra Re di Shuruppak, e gli disse: “Fa’ in fretta, Re, metti da parte provviste e beni di ogni tipo e va’ con la tua gente su una montagna; perché la devastazione sarà grande.” Ziusudra non perse tempo: mise da parte le provviste, mise da parte beni di ogni tipo, li caricò sul dorso delle sue bestie da soma e con la sua gente si recò sulle montagne. Vi restarono finché le acque del diluvio infuriarono nella pianura, e non ne discesero finché la tempesta non fu cessata.»
Che cos’era quella storia? Dov’era la grande nave su cui Ziusudra aveva caricato i suoi servi e le bestie dei campi, a coppie? Che cosa ne era della traversata sul mare che aveva coperto la superficie del Paese? E che fine avevano fatto la colomba, la rondine e la cornacchia che Ziusudra aveva inviato? Favole e leggende, e nulla di più? Era possibile una cosa simile?
Il racconto che stavano narrando sull’isola non conteneva nessuno di quei graziosi particolari. Era un semplice resoconto: una brutta stagione piovosa, fiumi in piena, un Re previdente che agiva rapidamente per contenere il disastro per la sua città. Più ascoltavo, più quella storia mi sembrava normale. Quando Ziusudra era disceso dalle montagne, Shuruppak e tutte le città del Paese erano in pessimo stato, coperte di fango, macchiate dall’acqua. Le fattorie erano allagate, il raccolto e gli animali erano perduti, le provviste conservate nei granai erano rovinate. C’era la carestia in tutto il paese, ma a Shuruppak la situazione non era disperata come nelle altre città, perché Ziusudra aveva fatto in modo da sfuggire al peggio del diluvio.
E questo non era tutto. Nessun mare che sommergeva il Paese, nessuna nave a sei ponti, nessuna colomba, nessuna rondine, nessuna cornacchia. Non potevo crederci. Era una storia così semplice? Non è tipico dei Sacerdoti semplificare le storie a mano a mano che le raccontano. Ma quei Sacerdoti stavano dicendo che non c’era stato nessun Diluvio distruttivo, ma solo qualche pioggia intensa e qualche momento difficile.