Se questa era la verità, che cosa ne era del resto della storia? Enlil era andato da Ziusudra e da sua moglie, poi il Grande Dio li aveva presi per mano e aveva detto loro: «Eravate mortali, ma non siete più mortali. Da oggi in avanti sarete simili a Dei e vivrete lontani dal genere umano, alle foci dei fiumi, nella terra dorata di Dilmun»… anche questa era una favola? E io avevo attraversato mezzo mondo solo per una favola? Ziusudra non esiste, aveva detto l’ostessa Siduri. Era vero? Mi ero reso ridicolo nell’intraprendere quella ricerca? Gilgamesh, Gilgamesh, dove corri? Non troverai mai la vita eterna di cui sei alla ricerca.
La disperazione mi assalì. Mi persi nella confusione e nella vergogna.
Fu allora che il vecchio Sacerdote Lu-Ninmarka mi posò una mano sulla spalla e disse: «Alzati, Gilgamesh, lavati, indossa una tunica pulita. Lo Ziusudra desidera vederti oggi.»
Quando ebbi finito i preparativi, il Sacerdote mi accompagnò al Tempio principale. Mi sentivo stranamente calmo, o forse non era così strano. Ero sotto l’incantesimo dell’isola.
Entrammo nella grande sala delle travi di cedro e del pavimento di pietra nera e la attraversammo tutta. Arrivammo al muro opposto all’ingresso, e il Sacerdote con una mano sfiorò un punto della muratura. La parete si aprì come per magia e rivelò un corridoio che si perdeva nelle tenebre.
«Vieni,» disse. Non aveva né una lampada né una torcia. Avanzammo, e ad un tratto avvertii una nebbia umida che si alzava dalla terra e portava con sé un lieve odore di sale. È l’acqua del Grande Abisso, pensai, che sale lungo le radici dell’isola e si scarica in questo tunnel. Lu-Ninmarka si muoveva con disinvoltura nelle tenebre e io lo seguivo da vicino. Non mi concessi il conforto di guidare i miei passi tastando con le mani le pareti del tunnel, ma camminai con passo fermo, sebbene non vedessi nulla.
Non saprei dire quanto camminammo, e a quale profondità sotto la superficie dell’isola arrivammo. Forse ci muovevano solo in tondo, girando intorno alla sala centrale. Forse seguivamo le spirali di un enorme labirinto. Ma, dopo molto tempo, ci fermammo nel buio.
Davanti a me vidi un debolissimo bagliore ambrato, lieve e fioco come i brevi lampi di luce emanati dalle fiamme di calore che si accendono nelle notti estive. Per quanto fosse fioco, mi abbagliò gli occhi. Un attimo dopo, riuscii a vedere, più o meno. Mi trovavo sulla soglia di una piccola stanza rotonda con le pareti di terra, illuminata da una lampada ad olio, montata su un’alta mensola. L’incenso scoppiettava in un piatto di porfido poggiato sul pavimento. Al centro della stanza, seduto con il busto eretto, su una sedia di legno, c’era l’uomo più vecchio che avessi mai visto.
Avevo pensato che il Sacerdote Hasidanum fosse venerabile, ma l’uomo che mi stava davanti avrebbe potuto essere facilmente il padre di Hasidanum. Ero intimorito, mi sembrava di avere una mano che mi stringeva il collo e mi soffocava. Io che avevo camminato con gli Dei e lottato con i Demoni, ero confuso alla vista dello Ziusudra.
La sua faccia sembrava una maschera: aveva gli occhi bianchi e ciechi, la bocca era una caverna scura e vuota. Era completamente senza capelli e senza peli, era perfino privo di sopracciglia. Aveva le guance piene e la faccia rotonda. Gli altri vecchi dell’isola avevano il viso scarno, magro, prosciugato dal sole, ed erano ossuti. Ma Ziusudra aveva oltrepassato la fase della magrezza ed era Uscio, rosa e paffuto come un neonato. I suoi occhi ciechi erano fissi su di me. Sorrise e disse, con una voce profonda e risonante, ma dai toni cupi: «Finalmente sei qui, Gilgamesh di Uruk. Quanto tempo ti è occorso per arrivare!»
Non riuscivo a dire nemmeno una parola. Come potevo parlare ad un uomo la cui fronte era stata toccata dalla mano di Enlil?
«Siediti. Inginocchiati. Sei troppo alto. Mi sembra di avere un muro davanti.»
Non capivo come facesse a sapere quanto fossi alto, visto che non vedeva. Forse glielo avevano detto i Sacerdoti, o forse avvertiva le impercettibili fluttuazioni delle correnti d’aria nel tunnel. O forse aveva una vista aldilà della vista. Non lo sapevo. Quest’ultima era l’ipotesi più probabile.
Mi inginocchiai. Ziusudra annuì e sorrise: era un sorriso remoto. Allungò un mano a benedirmi, e mi toccò una guancia. Il suo tocco mi punse: aveva la punta delle dita schiacciate. Immaginai che mi avesse lasciato un’impronta bianca sulla pelle.
Disse: «Ti ritrai. Perché?»
Cercai di rispondere, ma mi uscì dalla bocca solo un sussurro rauco: «Non c’è nessuna ragione, padre.»
«Mi temi?»
«No… no!»
«Avverto un’aura di paura intorno a te. Mi è stato detto che sei il più grande fra gli Eroi, che la tua forza non ha limiti, che domini tutto. Che cosa temi, Gilgamesh?»
Lo guardai in silenzio. Il mio timore paralizzante stava scemando, ma mi era ancora difficile parlare; perciò mi limitai a guardare. Ziusudra era immobile come una pietra, tranne che per l’espressione del viso. Per un attimo pensai che fosse veramente una statua, un’ingegnosa macchina, tirata con le funi da un Sacerdote nascosto sotto il pavimento. Qualche attimo dopo dissi: «Temo quello che tutti devono temere.»
La sua voce arrivò da molto lontano. Mi chiese: «E che cos’è?»
«Avevo un amico, che era il mio doppio, la mia metà. Si è ammalato ed è morto. L’ombra della mia morte mi copre. Oscura la mia vita. Non vedo nient’altro oltre a quell’ombra che si allunga, padre. E mi spaventa.»
«Ah, allora l’Eroe ha paura di morire?»
Non saprei dire se mi schernisse.
«Non di morire,» dissi. «Morire è solo dolore, e io conosco il dolore e non lo temo. Il dolore finisce. Quello che io temo è la morte. Ho paura di essere gettato nella Casa della Polvere e delle Tenebre, dove dovrò restare per tutta l’eternità.»
«E dove non sarai più un Re, e non berrai più vino dalle brocche di alabastro? Dove nessuno canterà la tua gloria, e ti mancherà ogni comodità?»
Era ingiusto.
«No,» dissi in tono aspro. «Pensi che siano così importanti le comodità per me, che ho lasciato spontaneamente la mia città per vagare nelle regioni selvagge? Pensi che abbia tanto bisogno del vino, dei bei vestiti, o degli arpisti che cantano le mie imprese? Mi piacciono queste cose: a chi non piacerebbero? Ma non temo di perderle.»
«Che cosa temi, allora?»
«Di perdere me stesso. Di vivere in quella vita-fantasma che viene dopo la vita, quando non siamo nient’altro che tristi spettri polverosi che sbattono le ali nelle tenebre. Smettere di percepire, smettere di esplorare, smettere di viaggiare, smettere di sperare. Tutte queste cose sono Gilgamesh. Non ci sarà più Gilgamesh, quando andrò in quel luogo di disperazione. È tutta la vita che cerco, padre: non posso sopportare che la mia ricerca finisca.»
«Ma tutte le cose finiscono.»
«È vero?», chiesi.
Mi guardò con maggiore attenzione, come se volesse assicurarsi di guardarmi dentro l’anima con i suoi occhi ciechi e lattei. Poi disse: «Quando costruiamo una casa, ci aspettiamo che duri per sempre? Quando stipuliamo un contratto, pensiamo che abbia valore per ogni tempo a venire? Quando il fiume è in piena, le acque non si ritirano mai più? Nulla è permanente. La ninfa della libellula esce dalla larva, guarda il sole per un attimo, e poi muore. È così anche per gli uomini. Sia il padrone che il servo hanno il loro piccolo attimo, il loro sguardo verso il sole. Così è la vita.»
Di nuovo quelle parole! Mi sentii disperare.