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Sradicai una pianta. Mi costò non poco dolore. La superficie esterna era tagliente e spinosa, come se fosse coperta di minuscole lame, e mi graffiò le mani come una rosa. Vidi una nube cremisi, il mio sangue, salirmi lungo le braccia. Ma avevo la pianta della vita: la strinsi con forza, la alzai in alto, trionfante, e avrei gridato di gioia, se fosse stato possibile in quel mondo silenzioso. Torna-Giovane! Sì! Forse la Vita Eterna non sarebbe stata mia, ma almeno avrei potuto proteggermi dai morsi dei denti del tempo.

Sali, subito, Gilgamesh! Ritorna in superficie! La mia missione era compiuta. Mi resi improvvisamente conto di non avere più fiato.

Mi liberai dalle pietre che avevo legate ai piedi e salii come una freccia, fendendo l’acqua, disperdendo i pesci sorpresi. La luce mi avvolse. Emersi e sentii il calore del sole. Tra risate e spruzzi, mi gettai nel grembo del mare. Le onde mi spinsero a riva. In pochi attimi raggiunsi un punto in cui l’acqua era bassa abbastanza da permettermi di camminare. Allora corsi finché non fui di nuovo sulla spiaggia.

Tesi il braccio verso Lu-Ninmarka per mostrargli la pianta grigia e magica che stringevo nella mano. Il sangue scorreva ancora dai tagli che mi ero fatto nelle mani e sentivo il sale bruciarli, ma non mi importava.

«È questa?», gridai. «È quella giusta?»

«Fammi vedere,» mormorò il vecchio. «Dammi il tuo coltello.»

Prese il coltello e abilmente infilò la lama tra le due foglie di pietra. Con una forza che non credevo avesse, il vecchio Sacerdote separò le due foglie e le rovesciò. All’interno vidi qualcosa di strano, una cosa pulsante, rosa e pelosa, soffice, intricata e misteriosa quanto il luogo più intimo e segreto di una donna. Ma Lu-Ninmarka non le prestò alcuna attenzione. Infilò le dita tra le pieghe e le fessure della cosa. Un attimo dopo, gridò ed estrasse qualcosa di rotondo, liscio e splendente, la perla! che rappresenta il frutto della pianta Torna-Giovane.

«Ecco quello che cercavamo,» disse. Con noncuranza gettò via le foglie di pietra e la sostanza rosa, e un uccello si avventò subito a ghermire quella carne tenera. Ma il vecchio teneva la perla nel palmo della mano e la guardava sorridendo come se fosse il suo figlio più caro. Nella calda luce del sole sembrava splendere di un bagliore interno, era di un bellissimo colore blu, mescolato a un rosa vellutato.

La toccò delicatamente con la punta delle dita, e la fece rotolare nel palmo, provandone grande delizia. Poi la posò sulla mia mano e mi piegò le dita intorno. «Mettila nel sacchetto che hai legato in vita,» disse, «e custodiscila come il più grande dei tuoi tesori. Portala con te a Uruk dagli alti bastioni, e conservala nei tuoi forzieri. E, quando comincerai a sentire il peso degli anni, va’ a prenderla, riducila in una fine polvere, aggiungila ad un buon vino forte, e bevila in un solo sorso. Questo è tutto. Gli occhi ti torneranno limpidi, il respiro si farà più profondo, la tua forza sarà la forza del cacciatore di leoni che eri un tempo. Questo è il regalo che ti facciamo, Gilgamesh di Uruk.»

Guardai la perla con gli occhi splendenti.

«Non avrei potuto desiderare niente di più bello.»

«Andiamo, ora. II barcaiolo ti aspetta.»

38

Brusco, cupo e silenzioso come sempre, Sursunabu il barcaiolo, nel pomeriggio mi traghettò all’isola maggiore. Trovai alloggio nella città principale di Dilmun per qualche giorno, finché non trovai un passaggio a bordo di una nave diretta al Paese.

Vagavo oziosamente per le ripide stradine, accanto alle botteghe con le facciate di mattoni e travi, dove gli artigiani dell’oro, del rame e delle pietre preziose, applicavano la loro maestria. Guardavo la spiaggia e le navi e, più avanti, l’ampio lenzuolo blu del mare e l’isoletta di sabbia.

Pensavo allo Ziusudra che non era Ziusudra, ai Sacerdoti e alle Sacerdotesse che lo servivano nei misteri del culto, e alla vera storia che essi raccontavano del Diluvio, così diversa da quella che si narra nel Paese. E pensai anche al frutto di pietra della pianta Torna-Giovane, che oscillava in un sacchetto che portavo appeso al collo e ardeva sul mio torace come una sfera di fiamma.

Finalmente la mia ricerca era terminata. Stavo per tornare a casa e, se pure non avevo trovato quello che ero venuto a cercare, ne avevo almeno ottenuto una parte, un mezzo per sfuggire temporaneamente al fato che odiavo.

Così sia. E ora ad Uruk!

C’era un mercantile di Meluha nel porto, che aveva quasi concluso tutti i suoi affari. Si sarebbe diretto a nord e si sarebbe fermato a Eridu e a Ur per vendere le merci in cambio della mercanzia del Paese. Quando fosse stato di nuovo carico, sarebbe tornato nel Mare del Sole Che Sorge e avrebbe fatto vela verso oriente, verso il porto misterioso e lontano da cui era venuto. Lo venni a sapere da un mercante di Lagash che alloggiava nella mia stessa osteria.

Scesi al porto e trovai il capitano del mercantile di Meluha. Era un uomo basso e dall’aspetto delicato, con la pelle nera come l’ebano e tratti belli, nobili e sottili. Capiva la mia lingua abbastanza bene e disse che mi avrebbe accolto sulla sua nave. Gli chiesi il prezzo del paesaggio, e lui me lo disse: credo che fosse la metà del valore di tutta la nave. Mi guardò con quegli occhi simili a onice levigato e sorrise. Si aspettava che mercanteggiasse con lui? Come avrei potuto farlo? Io sono il Re di Uruk: non posso mercanteggiare. Forse lo sapeva e ne stava approfittando. O forse pensava che io fossi un omone grosso e scemo, con più argento che intelletto. Beh, era un prezzo esagerato; mi tolse quasi tutto l’argento che mi era rimasto. Ma non era molto importante. Mancavo dal Paese da troppo tempo, avrei pagato quel prezzo, e anche di più, di buon grado, se solo quella nave mi avesse portato a casa.

Poi salpammo. Un giorno in cui il cielo era piatto e caldo come un’incudine, i piccoli uomini dalla pelle scura issarono le vele, balzarono ai remi, e la nave si diresse verso nord.

Il carico era costituito da legnami di ogni genere, provenienti da Meluha, che i marinai avevano sistemato in grandi fasci sul ponte. La nave trasportava anche casse piene di lingotti d’oro, di statuine e pettini di avorio, e di cornaline e lapislazzuli.

Il capitano disse che aveva fatto quel viaggio cinquanta volte e che aveva intenzione di farlo altre cinquanta volte prima di morire. Gli chiesi di parlarmi delle terre che si trovavano tra Meluha e il Paese: volevo sapere la forma delle coste, il colore dell’aria, l’odore dei fiori, e mille altre cose, ma lui si strinse nelle spalle e disse: «Perché ti interessa? Il mondo è uguale dovunque.» Provai molta compassione per lui, quando sentii che cosa pensava.

Tra i Meluhani mi sentivo un colosso. Ero abituato da molti anni a sopravanzare con la testa, le spalle e il torace, tutti gli uomini del Paese, ma i miei compagni di viaggio mi arrivavano a malapena all’altezza della pancia, e mi ronzavano intorno, quasi fossero api.

Per Enlil, dovevo sembrare loro una creatura mostruosa! Eppure non mostravano alcun timore: per loro ero solo una barbara stranezza, un particolare che avrebbero aggiunto alle trame dei loro racconti quando fossero tornati a casa.

«Credimi, abbiamo avuto un passeggero tra Dilmun e Eridu: era alto quanto un elefante! Era anche stupido quanto un elefante, e aveva i piedi grandi e pesanti. Dovevamo badare a toglierci dal suo cammino, altrimenti ci avrebbe calpestati, senza nemmeno accorgersi di noi!»

In realtà, mi facevano sentire goffo, tanto piccoli e agili erano quegli ometti. Ma a mia difesa dirò che la nave era costruita per uomini di una statura inferiore alla mia. Non era colpa mia se dovevo camminare ingobbito, con le braccia penzoloni, a malapena capace di muovermi senza urtare qualcosa.