Il sole era incandescente e il cielo sereno era spietato. C’era poco vento, ma quei marinai erano così intelligenti che riuscivano a far avanzare la nave con una brezza lievissima. Li guardavo con ammirazione. Lavoravano come se avessero una sola mente. Ciascuno ricopriva il proprio ruolo senza avere bisogno di ordini, lavorando con rapidità e in silenzio, nonostante il caldo soffocante. Se mi avessero assegnato un compito, l’avrei eseguito, ma mi lasciarono in pace. Sapevano che ero un Re? Se ne curavano? Erano una razza senza curiosità, credo, ma lavoravano molto.
All’imbrunire, quando si riunivano per la cena, mi invitavano timidamente a raggiungerli. Ogni sera mangiavano uno stufato di carne o di pesce, dal sapore così forte che mi bruciava la bocca, e una specie di zuppa che sapeva di latte acido. Dopo aver mangiato, cantavano: era una musica veramente strana, le voci vagavano e si intrecciavano a formare melodie stridule e innaturali che si avvolgevano in spire, come serpenti. E così passavano i giorni. Io ero felice di stare in disparte, solo con me stesso, perché ero stanco e avevo molti pensieri in mente. Ogni tanto toccavo la perla della pianta Torna-Giovane che mi pendeva dal collo, e pensavo spesso a Uruk e a che cosa mi attendeva nella mia città.
Infine vidi i graditi lidi del Paese stagliarsi scuri contro l’orizzonte. Entrammo nelle ampie foci congiunte dei due fiumi e risalimmo la corrente, fino al punto in cui i due fiumi si dividono. Lì, l’Idigna correva verso destra, e il Buranunu, il nostro grande fiume, si allungava verso sinistra. Resi grazie a Enlil. Non ero ancora a casa, ma il vento che mi arrivava alle narici era il vento che il giorno prima aveva soffiato nella mia città natale, e anche solo quel vento era sufficiente a rallegrarmi.
Non molto tempo dopo attraccammo al molo della Sacra Eridu. Dissi addio al capitano di Meluha e scesi a terra da solo. Non sarebbe stato prudente continuare il viaggio con quella nave, perché il porto successivo sarebbe stato Ur, e non era un luogo dove potevo arrivare sotto le spoglie di un viaggiatore solitario. A Ur mi avrebbero riconosciuto. Se vi avessi messo piede senza un’armata alle spalle, non avrei più rivisto Uruk.
Mi riconobbero anche a Eridu. Non erano passati tre minuti da quando ero sceso dalla nave, che cominciai a vedere occhi che guizzavano e dita che indicavano. Sentii sussurrare, con timore e meraviglia, «Gilgamesh! Gilgamesh!» C’era da aspettarselo. Ero stato a Eridu molte volte per i riti autunnali che seguono il Matrimonio Sacro. Ma non era autunno, e io ero arrivato senza il mio seguito. Non c’era da meravigliarsi che mi indicassero e sussurrassero.
Eridu è la città più antica del mondo. Diciamo che fu la prima delle cinque città che esistevano prima del Diluvio. Forse è vero, sebbene non abbia più la stessa fede in queste vecchie storie in cui credevo prima di andare da Ziusudra. Enki è il Dio principale della città, il Dio che ha il dominio sulle acque dolci che scorrono sotto la terra: il suo grande Tempio è a Eridu, e la dimora principale è sotto il Tempio, o perlomeno così si dice. Credo che sia vero: sì può scavare dovunque nella zona intorno a Eridu e trovare sempre acqua dolce.
Eridu è lontana dal Buranunu, ma è collegata al fiume da lagune e ottimi canali navigabili, ed è un porto quanto lo sono le città fluviali. La sua posizione geografica non è favorevole però, perché il deserto comincia ai margini della città e io credo che un giorno le dune la copriranno. Anche gli abitanti di Eridu devono avere la stessa idea, perché hanno costruito non solo il Tempio, ma tutta la città, sulla sommità di una grande piattaforma sopraelevata.
Ci sono molte cave di pietra intorno a Eridu, e i costruttori della città le hanno adoperate bene. Il muro di contenimento della piattaforma è una struttura massiccia rivestita di arenaria, e i gradini del Tempio sono fatti con grandi lastre di marmo. E una condizione invidiabile avere tante cave di pietra vicine alla propria città, e non essere costretti come noi a costruire solo con il fango.
Da molto tempo i mercanti di Uruk mantengono una Casa del Commercio a Eridu, vicino al Tempio di Enki: un posto tenuto in comune, dove possono farsi credito l’un l’altro, possono aggiornare i libri mastri, scambiarsi le voci che girano per il mercato e fare tutte le altre cose che di solito fanno i mercanti.
Fu lì che mi diressi dal molo. Camminavo incurante della folla sempre più numerosa che sussurrava e indicava: «Gilgamesh! Gilgamesh!».
Quando entrai nella Casa del Commercio, vi trovai tre uomini della mia città impegnati nel lavoro di scribi con stilo e tavoletta. Appena mi videro, balzarono in piedi, pallidi e senza fiato come se fosse apparso Enlil in carne e ossa. Poi caddero in ginocchio e cominciarono a eseguire freneticamente i Segni Regali; dimenando le braccia e agitando la testa come pazzi furiosi. Occorse del tempo prima che si calmassero abbastanza da capire.
«Non sei morto, Maestà!», esclamarono.
«È evidente che non sono morto,» dissi. «Chi ha raccontato questa storia?»
Si guardarono con cautela l’un l’altro. Alla fine il più anziano, quello con lo sguardo più sveglio, replicò: «È stata raccontata al Tempio, penso. Si è detto che eri andato nelle regioni selvagge perché eri fuori di te per la morte di Enkidu, tuo fratello, e che eri stato divorato dai leoni…»
«No, che eri stato portato via da Demoni…», intervenne un altro. «Da Demoni, sì, che erano usciti da un turbine di vento…»
«L’uccello-Imdugud fu visto sui tetti gridare brutti presagi per cinque notti consecutive…», dichiarò il terzo.
«Una mucca con due teste fu trovata nei pascoli… fu sacrificata allo Ubshukkinakku…»
«E al Santuario del Destino…»
«Sì, e si alzò una nebbia verde intorno alla luna, che…»
Misi fine a tutte queste ciance con un sonoro grido: «Un momento! Ditemi solo questo: in quale Tempio si è detto che ero morto?»
«Al Tempio della Dea, Maestà!»
Sorrisi. Non era una grande sorpresa.
Con calma dissi: «Ah, Ah, capisco: naturalmente. È stata la stessa Inanna a comunicare la triste notizia, eh?»
Annuirono. Avevano un’espressione sempre più turbata ad ogni momento che passava.
Pensai a Inanna, al suo odio per me, e alla sua brama di potere. Ricordai che, tanto tempo prima, aveva tolto di mezzo Dumuzi quando questi non le era più servito, e capii che la mia partenza da Uruk doveva esserle sembrata un dono degli Dei. Mi dissi che avevo fatto la più grande follia di tutte a fuggire in preda al dolore per trovare la Vita Eterna, quando avevo i miei doveri cui badare. Quanto doveva aver riso, quando le era stato detto che ero scomparso dalla città! Quanto sollievo aveva sentito quando i giorni passavano e io non tornavo, e nessuno sapeva dove fossi!
Chiesi: «Inanna era molto addolorata? Si lamentava e si strappava le vesti di dosso?»
Annuirono con grande solennità.
«Il suo dolore fu veramente grande, o Gilgamesh.»
«E si sono suonati i tamburi per me? Il tamburo-lilissu, i piccoli tamburi-balag?»
Non risposero.
«Sì? Sì?»
«Sì.» Un rauco sussurro. «Si sono suonati i tamburi per te. C’è stato grande lutto per te.»
Sentivo un rombo alla testa. Pensavo che stesse per cominciare il mio accesso estatico. Sentivo il ronzio e il sibilo dentro di me. Mi avvicinai a loro. I tre uomini tremavano perché ero troppo vicino, e io tremavo nel porre la domanda che temevo più di porre: «E ditemi anche questo: hanno già scelto un Re al mio posto?»
Ci fu di nuovo uno scambio di sguardi preoccupati. Quegli infelici mercanti tremavano come foghe in una tempesta autunnale.
«Sì?» domandai.
«Non… ancora,» disse uno di loro infine.