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Parve sorpreso.

«Hai intenzione di andare per via di terra?»

Annuii.

«Darà al mio popolo più tempo per preparare la cerimonia di benvenuto.»

«Allora ti fornirò una scorta di cinquecento soldati, e tutto quello che puoi…»

«No,» dissi. «Un solo carro e gli animali per tirarlo. Un solo auriga. Non ho bisogno di altro. Gli Dei mi proteggeranno, Shulutula, come hanno sempre fatto. Andrò da solo.»

Gli fu difficile capire. Non riusciva a comprendere come io non avessi alcun desiderio di entrare in Uruk alla testa di un’armata di soldati stranieri. Volevo entrare nella mia città così come l’avevo lasciata, solo, senza timore. Il mio popolo mi avrebbe accolto perché ero il loro Re, non perché mi ero imposto, con la forza. Quando gli uomini vengono sottomessi con la forza delle armi, non sono sottomessi nell’anima, ma cedono solo perché non hanno scelta. Ma quando gli uomini vengono sottomessi con la forza del carattere, essi cedono con tutto il cuore, e si sottomettono completamente. Tutti i Re saggi lo sanno.

Perciò presi da Shulutula di Eridu solo quello che gli avevo chiesto: un carro e un auriga. Il governatore mi diede qualche provvista e una faretra di ottimi giavellotti, nel caso lungo la strada avessimo incontrato lupi e leoni ma, sebbene continuasse ansiosamente a cercare di persuadermi ad accettare una scorta, non cedetti.

Restai a Eridu altri cinque giorni. Dovevo compiere le purificazioni ai Templi di Enki e di An, e un rito privato in onore di Lugalbanda. Queste faccende mi tennero occupato tre giorni. Il quarto, secondo i Maghi di Shulutula, era un giorno sfortunato, perciò rimandai la partenza al quinto.

All’alba del quinto giorno partii per Uruk. Era il dodicesimo giorno del mese di Du’uzu, quando il pieno caldo dell’estate comincia ad invadere il Paese. L’auriga che mi fu dato era un uomo robusto, di nome Ninurta-mansum, che aveva forse trent’anni, e i primi peli grigi nella barba. Intorno al petto portava il nastro scarlatto con cui annunciava di aver dedicato la sua vita al servizio di Enki. In maniera strana, mi richiamava alla mente la cicatrice rossa che segnava il corpo del vecchio Namhani, l’auriga che aveva guidato il mio carro tanto tempo prima, quando ero un giovane Principe al servizio di Agga di Kish. La mia impressione era curiosamente giusta, perché il solo auriga che eguagliasse l’abilità di Namhani era proprio Ninurta-mansum: erano dello stesso genere. Quando tenevano le redini, era come se tenessero l’anima dei loro animali in mano.

Al momento della partenza, abbracciai Shulutula e gli giurai ancora una volta che avrei difeso la sua città dalle ambizioni del Re di Ur. Il governatore uccise una capra e offrì una libagione di sangue e di miele alla porta principale, per assicurarmi un ritorno tranquillo a casa. Poi partii.

Uscimmo dalla città attraverso la Porta dell’Abisso e oltrepassammo le alte dune e un grande bosco di spinosi alberi kishanu: quasi una foresta. Quando mi girai a guardare, vidi le torri del palazzo e dei Templi di Eridu ergersi, simili a castelli di Principi-Demoni, contro il cielo chiaro dell’alba. Poi attraversammo un’aspra cresta rocciosa e scendemmo nella valle. Ormai la città non si vedeva più.

Ninurta-mansum sapeva molto bene chi fossi e che cosa sarebbe probabilmente accaduto se fossi caduto nelle mani di qualche squadrone di soldati di Ur in pattugliamento. Perciò girò alla larga dalla città e deviò per la landa abbandonata e desolata che si trova ad occidente di Eridu. Era una terra deserta, spazzata da un vento aspro: la sabbia si alzava in vortici e prendeva la forma di tenui fantasmi, i cui occhi malinconici non mi lasciarono per tutto il giorno. Ma non ebbi paura. Non era nient’altro che sabbia che turbinava.

Gli asini sembravano instancabili. Correvano un’ora dopo l’altra e non sembravano conoscere né sete né stanchezza. Avrebbero potuto essere sotto un incantesimo, o forse Demoni stregati, tanto erano instancabili. Quando al tramonto ci fermammo, erano ancora freschi. Mi chiesi che cosa avrebbero bevuto gli animali in quella regione selvaggia, ma Ninurta-mansum cominciò subito a scavare, e poco dopo un zampillo di acqua dolce e fresca cominciò a uscire gorgogliando dalla sabbia. Senza dubbio, quell’uomo era sotto la protezione di Enki.

Quando non corremmo più rischi di incontrare guerrieri di Ur, l’auriga cominciò a guidarci più vicino al fiume. Eravamo sul lato orientale del Buranunu e dovevamo attraversarlo in qualche modo per arrivare a Uruk, ma questo non era un compito difficile per Ninurta-mansun. Conosceva un posto dove a quell’epoca dell’anno il fiume era basso e il fondo era solido e sicuro, e fu lì che ci fece attraversare il fiume. L’unico brutto momento fu quando l’asino di sinistra mise una zampa in fallo e cadde. Pensai che avrebbe rovesciato il carro nella caduta, ma Ninurta-mansum afferrò le tirelle e usò tutta la sua forza per tenerci diritti. Gli altri tre asini restarono saldi. Quello che era caduto si rialzò dall’acqua soffiando e sputando, riprese l’equilibrio, e così arrivammo sani e salvi sulla riva orientale del fiume. Forse nemmeno Namhani ci sarebbe riuscito.

Ci trovavamo nelle terre vassalle di Uruk. La città, però, era ancora a qualche lega di distanza, a nord-est. Non sapevo di chi fosse la terra in cui eravamo entrati, se fosse di Inanna, di An, o di qualche grande proprietario della città. Avrebbe anche potuto essere mia, perché avevo vasti possedimenti in quella regione. Ma, di chiunque fosse, una terra del Tempio o privata, era sempre terra di Uruk.

Dopo la mia lunga assenza, provai una tale gioia nel vedere quei campi fertili e ricchi che sarei saltato giù dal carro e avrei abbracciato la terra. Invece, mi accontentai di una libagione e dei brevi riti del ritorno a casa. L’auriga si inginocchiò al mio fianco, sebbene fosse uno straniero. Era un brav’uomo quell’auriga: più bravo di qualche Sacerdote e Sacerdotessa di mia conoscenza.

Incominciammo a incontrare i contadini. Naturalmente, riconobbero il loro Re, non fosse altro per l’altezza e il portamento. Corsero accanto al carro gridando il mio nome: agitai le mani, sorrisi, feci i Segni degli Dei. Ninurta-mansum frenò gli asini e il carro si mosse ad un trotto lento, in modo che la gente potesse tenerne il passo.

Aumentavano sempre di più, arrivavano dai campi a mano a mano che la voce si diffondeva, finché non furono centinaia. Quella sera, quando ci fermammo, ci portarono le cose migliori che avevano, birra forte e nera, la birra rossa che a loro piace tanto, il vino di datteri e la carne arrostita di vitello e di pecora. Per ore vennero da me uno alla volta, piangendo di gioia, per inginocchiarsi al mio cospetto e rendere grazie perché ero ancora vivo. Mi sono stati dedicati festeggiamenti più sontuosi, ma nessuno, credo, che mi abbia commosso così profondamente.

Naturalmente, la notizia che mi stavo avvicinando alla città mi precedette a Uruk. Era quello che volevo. Ero certo che Inanna avesse usato la mia assenza per prendere tutto il potere nelle sue grinfie. Volevo che quel potere cominciasse a scivolarle dalle mani, un’ora dopo l’altra, mentre i cittadini si sussurravano l’un l’altro che il loro Re stava per tornare.

Poi, finalmente, un giorno in cui il caldo danzava nel cielo come le onde dell’oceano, vidi le mura di Uruk alzarsi in lontananza, luccicanti, splendenti sotto il sole. Esiste in tutto il mondo una visione più bella delle mura di Uruk? Penso di no. Penso che avrei dovuto sentirne parlare, se fosse esistita un’altra meraviglia del genere. Ma non esiste, perché la nostra città è la Città delle Città, la dea tra le città, la città che è il cuore e il centro del mondo.

Quando ci avvicinammo, però, vidi qualcosa di insolito. Sulla pianura che si trova all’esterno della città, sulla distesa di terra nuda e sabbiosa che si stende tra la Porta Alta e la Porta di Nippur, macchie di colori vivaci spuntavano come enormi fiori al di sotto delle mura: sbuffi di scarlatto e di nero, di giallo e di blu. Erano un mistero per me, finché non mi avvicinai: capii allora che erano stati eretti tende e padiglioni. Per celebrare il mio ritorno, pensai, ma mi sbagliavo.