Mi aspettavo che mi venissero incontro i miei guerrieri, Bir-hurturre e Zabardi-bunugga, insieme alle truppe, e che mi scortassero in città. Invece, tre donne di Inanna uscirono a piedi da quei padiglioni. Capii subito che ci sarebbero stati problemi. Non conoscevo i loro nomi, ma le avevo viste durante le cerimonie: erano Alte Sacerdotesse. Indossavano lussuose tuniche scarlatte e portavano l’emblema del serpente in bronzo, avvolto a spirale intorno al braccio sinistro. Quando fui a portata di voce, quella al centro, che era alta e bella, con capelli neri intrecciati fittamente, fece il Segno della Dea e disse a voce alta: «Nel Nome di Inanna, ti ordiniamo di non andare oltre!»
Era troppo impudente perfino per Inanna. Mi irrigidii e trattenni il respiro, mentre un’ondata di rabbia mi montava dentro. Poi mi costrinsi alla calma. Con compostezza dissi:
«Sai chi sono, Sacerdotessa?»
Lei sostenne il mio sguardo con freddezza. Avvertii in lei una grande forza, e un potere spaventoso.
«Sei Gilgamesh, figlio di Lugalbanda,» rispose.
«Esatto. Sono Gilgamesh il Re di Uruk, di ritorno dal mio pellegrinaggio. Oppure vorresti metterlo in dubbio?»
Nello stesso tono misurato, disse, come se non concedesse nulla: «È vero. Sei il Re.»
«Allora, perché le donne della Dea mi ordinano di fermarmi in questo posto, al di fuori delle mura? Io voglio entrare nella mia città. Sono stato lontano per molto tempo. Sono ansioso di rivederla.»
Somigliavamo a due spadaccini che si provassero l’un altro con caute stoccate.
«La Dea mi ha ordinato di dirti quanto sia felice del tuo ritorno,» replicò lei, senza nessuna traccia dì gioia nella voce, «e vuole che ti porti nel luogo di purificazione che abbiamo eretto al di fuori delle mura.»
Spalancai gli occhi.
«Purificazione! Sono diventato impuro, allora?»
In tono blando, continuò:
«In sogno la Dea ha seguito i tuoi vagabondaggi, o Re. Sa che spiriti oscuri hanno invaso la tua anima, e vorrebbe liberarti del loro influsso malefico prima che tu entri nella città. È il suo modo di servire, e questa è la sua funzione: lo sai certamente.»
«La sua gentilezza è troppo grande.»
«Non è questione di gentilezza. È questione della salvezza della tua anima, di quella della città, e dell’ordine e dell’equilibrio altrui, che debbono essere mantenuti. Perciò la Dea ha decretato che si compiano questi riti, grazie alla sua grande misericordia e al suo immenso amore.»
Ah, pensai. La sua grande misericordia e il suo immenso amore! Per poco non scoppiai a ridere! Ma non lo feci: mi trattenni. Beh, mi dissi, giocheremo a questo gioco finché non finirà. Nel più cortese e formale dei modi, risposi: «La misericordia della Dea è sublime. Se la mia anima è in pericolo, deve essere purificata. Portami al luogo di purificazione.»
Quando scesi dal carro, Ninurta-mansun mi lanciò uno sguardo, e lo vidi aggrottare la fronte. Non avrebbe dovuto essere una sua preoccupazione il fatto che cadessi in un tranello: era un uomo di Shulutula, non mio. Eppure stava cercando di avvertirmi. Mi resi conto che sarebbe morto per me, se fosse stato necessario. Gli diedi una pacca sulle spalle per rassicurarlo, poi gli dissi di lasciar pascolare gli asini, ma di non farli allontanare troppo da me. Quindi seguii le tre Sacerdotesse di Inanna verso i padiglioni che erano sotto le mura.
Era evidente che le era occorso molto tempo per progettare tutto. Aveva fatto costruire un vero e proprio Recinto Sacro. C’erano cinque tende, una più grande, con il fascio di canne di Inanna infitto nella sabbia accanto all’ingresso, e quattro più piccole, nelle quali erano stati riposti tutti i tipi di attrezzi sacri: bracieri, incensieri, statue sante, stendardi, e simili…
Quando mi avvicinai, le Sacerdotesse cominciarono a cantare, i musici cominciarono a percuotere i tamburi e a soffiare nei flauti, i danzatori del Tempio mi girarono intorno tenendosi per mano. Guardai la tenda principale: Inanna in persona doveva attendermi al suo interno, pensai, e all’improvviso la gola mi si seccò e le viscere mi si torsero.
Avevo paura? No, non era esattamente paura: avevo l’impressione che il mio destino si stesse compiendo. Da quanto tempo non ci incontravamo faccia a faccia? Quali trasformazioni aveva compiuto alle mie spalle nella città? Certamente, Inanna aveva intenzione di compiere la mia rovina quel giorno, ma come? E come avrei potuto difendermi?
Fin dall’infanzia — quando lei stessa era stata poco più di una bambina — il mio fato era stato legato a quella donna dall’anima oscura. E, mentre mi avvicinavo, ero certo che all’interno di quella grande tenda nera e scarlatta, che si alzava davanti a me sulla pianura di Uruk, sarebbe avvenuto lo scontro finale tra i nostri destini.
Ma mi sbagliavo anche in questo caso. Le tre Sacerdotesse alzarono la cortina della tenda e la mantennero alta, invitandomi a entrare. Entrai, e mi trovai in un ambiente profumato, pieno di lussuose stuoie e bei tendaggi. Al centro della tenda, inginocchiata su una stuoia, mi aspettava una donna dalle forme voluttuose, il cui corpo era nudo tranne che per uno splendente pendaglio d’oro che le pendeva tra i seni e per lo spesso corpo color verde-oliva di un serpente della Dea. Il serpente le era avvolto come una corda intorno alla vita, e si muoveva con pulsazioni lente e scivolose.
Ma quella donna non era Inanna. Era Abisimti la Cortigiana Santa, la donna che mi aveva iniziato ai riti della virilità, la donna che aveva fatto la stessa cosa per Enkidu, quando il mio amico viveva nella steppa. Mi ero preparato a vedere Inanna, e la sorpresa e lo sconvolgimento di trovare qualcun altro al suo posto mi stordirono. Barcollai, indietreggiai, persi la coscienza. Mi sentii sull’orlo di un abisso. Ondeggiai, tremai, mi trattenni dal precipitare con il poco che mi restava della mia forza.
Abisimti mi guardò. I suoi occhi avevano uno strano bagliore. Bruciavano nelle orbite, simili a sfere di scintillante cornalina. Con una voce che sembrava provenire da lontano, da un mondo che non era questo mondo, la donna mi disse: «Salve, o Re! Salve, Gilgamesh!» E mi fece cenno di inginocchiarmi al suo fianco.»
40
Per un attimo ebbi dodici anni di meno e stavo andando con mio zio al convento del Tempio per la mia iniziazione. Mi vidi col gonnellino di morbido lino bianco, con la stretta fascia rossa dell’innocenza abbandonata dipinta sulla spalla, e una ciocca dei miei capelli in mano da’ dare alla Sacerdotessa. E rividi la bella Abisimti sedicenne, della mia adolescenza, i cui seni erano rotondi come melograni, i cui lunghi capelli neri sfioravano le sue guance dipinte d’oro.
Era ancora bella. Chi avrebbe potuto dire quanti uomini aveva abbracciato per amore della Dea prima che io andassi da lei, o quanti uomini avesse abbracciato dopo? Ma il numero di coloro che l’avevano posseduta avrebbe potuto essere grande quanto il numero di granelli di sabbia del deserto, e non le avrebbe tolto nulla della sua bellezza: poteva solo aumentarla. Non era giovane, i suoi seni non erano più tanto rotondi, ma era ancora bella. Mi chiesi, però, perché i suoi occhi avessero una luce così strana, perché la sua voce avesse toni così insoliti. Sembrava drogata. Devono averle dato una pozione, pensai: deve essere così. Ma perché? Perché?
Dissi: «Mi aspettavo di trovare Inanna qui.»
Parlò lentamente, come in sogno.
«Sei dispiaciuto? Inanna non può uscire dal Tempio. Andrai da lei dopo, Gilgamesh.»
Avrei dovuto capire che Inanna non sarebbe uscita fuori dalle mura della città. Ad Abisimti dissi: «Sono altrettanto felice di aver trovato te. Sono rimasto sorpreso, questo è tutto…»