Выбрать главу

— Si è fatto buio — disse lei. — Sarà meglio che vada. Jill farà un sacco di storie se non mi vede.

— L’accompagno io.

Fuori di casa si potevano vedere le stelle, anche se la luna nascente e le luci della città di Albuquerque facevano loro una concorrenza spietata, nel cielo. Involontariamente, sollevarono entrambi lo sguardo. Falkner intuì i pensieri di Kathryn. I loro occhi si incontrarono; lui sorrise, lei sorrise, e poi tutti e due scoppiarono a ridere.

— Non è che ce la stiamo cavando molto bene, nel dimenticarli, vero? — esclamò Kathryn.

— Ancora no. E non li dimenticheremo mai davvero. Per poche settimane della nostra vita le stelle sono scese fino a noi. E questa non è una cosa che si possa dimenticare. Ma bisogna pur sopravvivere. Le stelle se ne sono andate, ormai, e noi restiamo qui.

Salirono a bordo della sua macchina.

— Mi è piaciuto, oggi pomeriggio — disse Kathryn.

— Anche a me. Lo rifaremo.

— Presto.

— Molto presto — le disse Falkner. Avrebbe voluto dirle altre cose, molte altre. E col tempo le avrebbe dette. Non era tipo da aprirsi subito con gli estranei. Ebbe tuttavia il sospetto che lui e Kathryn avrebbero ben presto cessato di essere degli estranei. Troppe cose li univano. La conoscenza comune di una pelle fredda e vellutata, di politica galattica, di gambe fratturate e di addii improvvisi. E ciò li attirava, isolandoli nel contempo dagli altri quattro miliardi di abitanti del pianeta.

Avvertì una sensazione dentro di lui, come di una molla raggomitolata che incominciava a liberarsi dopo troppi anni di pressione. Sorridendo, avviò la macchina con un colpo del piede e la mise in movimento. Anche Kathryn sorrideva. Sopra il parabrezza c’era la volta arcuata del cielo. Glair e Vorneen erano lassù, chissà dove.

Augurò loro un tranquillo ritorno a casa.

CAPITOLO VENTIDUESIMO

Ormai il villaggio era tranquillo. Le celebrazioni della Società del Fuoco erano terminate; i bianchi erano tornati ad Albuquerque ed a Santa Fe. La piazza del villaggio era illuminata da lunghe chiazze di raggi lunari. In casa Estancia il televisore era acceso. Ramon e Lupe vi erano seduti davanti come ipnotizzati, e così anche la loro nonna. Lo zio George era fuori ad ubriacarsi. Il padre di Charley Estancia si trovava nel kiva a giocare con i suoi amici. Rosita se ne stava in cucina, imbronciata, perché quella sera non aveva nessun uomo sottomano. Charley sapeva il perché, ma non glielo aveva detto. Marty Moquino aveva lasciato il villaggio. In effetti nessuno lo aveva più visto a San Miguel da quella sera non molto lontana in cui Charley lo aveva spaventato a morte con il suo laser Dirnano. Si diceva che fosse tornato di nuovo a Los Angeles. Charley dubitava che avrebbe mai fatto ritorno, stavolta. Non dopo essersela data a gambe come un vigliacco davanti ad un ragazzo di undici anni.

In piedi fuori di casa, intento a fissare il bagliore bluastro dello schermo, Charley fu scosso da un leggero brivido. L’inverno si stava appressando al Rio Grande. Quel pomeriggio era caduto qualche fiocco di neve; forse ne sarebbe venuta giù un bel po’, per Natale. Charley non si preoccupava del freddo. Sotto la giacca lacera aveva due cose che gli procuravano calore: una lettera scritta con una calligrafia zoppicante sopra un pezzetto quadrato di plastica rilucente, ed un piccolo tubo di metallo che era in grado di emettere un incredibile raggio di luce.

Attraversò la piazza, senza alcuna meta in particolare, seguito al piccolo trotto dal suo cane.

Quella sera la luna era assai brillante. Poteva vedere le stelle, però, senza troppa difficoltà. Ecco le tre stelle luminose della costellazione di Orione. Ecco la stella di Mirtin. Charley si sentì meglio solo ad averla riconosciuta lassù.

Fra due anni, si disse, andrò al liceo. Che lo vogliano o no, ci andrò. Se mi diranno di no, scapperò di casa, e quando la polizia mi prenderà gli spiegherò il perché. Posso dirlo anche ai giornali. Dirò, eccomi qui, un ragazzo indiano dotato di intelligenza che vuole migliorare la sua vita, e che i genitori non vogliono mandare al liceo. Allora tutti mi faranno i complimenti. Mi aiuteranno ad andar via, e mi faranno frequentare la scuola. Potrò imparare… conoscere i razzi, le stelle, lo spazio. Ogni cosa.

Ed un giorno verrò nello spazio a trovarti, Mirtin! Proprio nel tuo sistema solare! Non mi hai forse detto che ben presto noi saremmo arrivati fin là? E che ci sarei stato anch’io?

Gironzolò per il villaggio, attraverso la piazza deserta ed al di là del vecchio kiva, lungo la spianata coperta di arbusti, oltre la sottostazione elettrica. Non si recò fino alla caverna di Mirtin, poiché sapeva che l’avrebbe trovata vuota. Ci era già andato parecchie volte, tanto per dare un’occhiata, ma non c’era alcun bisogno di ripetere quel pellegrinaggio proprio quella sera così fredda. Si fermò sul ciglio dell’arroyo, pensando al liceo ed a tutto ciò che avrebbe imparato, e pensando anche a quel che avrebbe significato per lui andarsene dal villaggio e dalle sue strade sonnacchiose, e vivere nel mondo degli uomini bianchi, dove chiunque avesse una mente sveglia poteva apprendere tante cose nuove.

Charley sollevò gli occhi al cielo.

— Ehi, Dirnani! — gridò. — Siete lassù, stasera? Potete vedermi? Ehi, sono io, Charley Estancoa! Sono quello che ha portato le tortillas a Mirtin!

Quanto volavano alti, i dischi volanti? Forse uno di essi, proprio in quel momento, stava roteando sopra la sua testa, a quindici chilometri di quota? Avevano delle macchine che potevano captare le voci dalla Terra?

— Potete sentirmi? — gridò ancora. — Sono io! Suvvia, volate più bassi, fatevi vedere! So tutto di voi!

Non successe nulla. In un certo senso, non si era aspettato che succedesse qualcosa, ma sapeva che erano lassù… e che osservavano.

Prese il laser dal suo nascondiglio e lo accarezzò. Lo regolò sul minimo e toccò la levetta, osservando poi il raggio luminoso che fuoriusciva dal tubo e tagliava di netto il ramo secco più basso di un albero. Era un oggetto incredibile, un giocattolo straordinario. Charley si ripromise di scoprire un giorno in che modo funzionava.

Lo rimise via.

Poi, con voce tranquilla, disse: — Statemi a sentire, io so che siete lassù. Fatemi solo un favore. Dite a Mirtin da parte mia che spero si rimetta presto. E ditegli grazie per aver parlato con me. Grazie per avermi insegnato tante cose. È tutto. Ringraziate Mirtin per me, eh?

Attese. Dopo un attimo, visto che non succedeva nulla, cominciò a dirigersi verso il villaggio. Si fermò, prese un sasso e lo lanciò nell’arroyo. Il suo cane abbaiò e fece grandi balzi, come se volesse addentare le stelle. Un’improvvisa raffica di vento spazzò ululando il pianoro.

Poi Charley vide una scia brillante sopra di lui… una linea vacillante di luce che sembrava sgorgare proprio dalla sommità del cielo e che discese verso il basso lentamente, perdendosi poi vicino all’orizzonte. Il suo polso aumentò il battito, e lui si mise a ridere. Stavolta non era stata una nave Dirnana, ma solo una normalissima stella cadente, tutto lì. Conosceva bene la differenza. Quello non era nulla di speciale, solo un pezzo di roccia e di metallo che si era incendiato a contatto con l’atmosfera.

Ma lo prese ugualmente come un segno. Il popolo di Mirtin gli aveva risposto, lo aveva riconosciuto. In quel preciso momento, loro si trovavano lassù, nelle loro navi. E avrebbero avuto cura di lui.

Fece un cenno di saluto verso le stelle.

— Grazie — disse. — Ehi, grazie, Dirnani!

Ritornò a grandi salti verso il villaggio, con il cane che gli correva dietro uggiolando, e nessuno dei due si fermò a riprendere fiato finché non furono in vista delle vecchie case di mattoni.

FINE