— Sì — disse un altro unendosi a lei, — e io devo trovare Wyzak, qui non c’è ancora. Avrà certo bisogno di aiuto. Verrò con lei…
— No! — gridò Van Atta in tono fermo e per poco non aggiunse: rovinerete tutto! - Dovete aspettare il segnale di cessato pericolo. Non intendo assistere a scene di panico. Ce ne staremo qui seduti ad aspettare istruzioni.
La ragazza cedette, ma l’uomo era ancora scettico. — Istruzioni da chi?
— Graf — disse Van Atta. Sì, non era mai troppo presto per cominciare a mettere in chiaro con i testimoni chi fosse il responsabile materiale. Controllò il ritmo del proprio respiro, cercando di darsi un contegno. Ma non troppo, perché doveva apparire sorpreso come tutti gli altri, no, più sorpreso degli altri, quando si fosse scoperta la reale dimensione del disastro.
Si preparò ad aspettare. I minuti passarono. Un ultimo gruppo di scampati riuscì a passare attraverso le porte stagne; il tasso di depressurizzazione dell’Habitat stava probabilmente rallentando. Uno degli amministratori addetti al controllo dell’inventario (le abitudini sono dure a morire) si affrettò a presentargli un censimento non richiesto dei presenti.
Dentro di sé maledisse colui che se n’era preso la briga, anche se, a voce alta, lo ringraziò: la prova lampante che non tutti erano presenti avrebbe potuto costringerlo a prendere delle iniziative che invece non voleva affatto prendere.
Solo dodici membri del personale terrestre non ce l’avevano fatta. Era il prezzo necessario da pagare, cercò di rassicurarsi Van Atta. Alcuni erano certamente rinchiusi in qualche sacca pressurizzata, o almeno in seguito avrebbe sempre potuto sostenere che quella era stata la sua convinzione. I loro errori potevano essere imputati a Graf.
Un gruppo accanto alle porte stagne si stava preparando a uscire. Van Atta respirò profondamente e si fermò non sapendo come fare per fermarli senza svelare tutto quanto. Ma una donna si lasciò sfuggire un grido costernato: — Il corridoio è completamente privo d’aria, ora! Non possiamo uscire senza le tute! — Van Atta trasse un sospiro di sollievo.
Si fece strada fino ad uno degli oblò del modulo: non si vedeva altro che la fissità delle stelle. Dall’oblò sul lato opposto si riusciva almeno ad avere una visione obliqua dell’Habitat. Un movimento attrasse il suo sguardo e Van Atta schiacciò il naso contro il vetro freddo per distinguere i particolari.
Il lampo argenteo di alcune tute che rimbalzavano sulla superficie esterna dell’Habitat. Scampati? O una squadra di riparazioni? Poteva darsi che, dopotutto, la sua prima ipotesi di un vero incidente fosse corretta? Male, ma in ogni caso si trattava sempre dell’opera di Graf.
Ma c’erano dei quad là fuori, maledizione, quad sopravvissuti, lo vedeva dalle braccia. Graf non era riuscito completamente nel suo intento. Anche due soli quad sopravvissuti, un maschio e una femmina, sarebbero stati un disastro, come mille di loro, dal punto di vista di Apmad. Forse la squadra era composta da soli maschi.
C’era anche Graf, tra quelle figure che trasportavano equipaggiamenti di vario tipo. La visione distorta e ondeggiante del suo angolo di visuale non gli permetteva di capire di che equipaggiamento si trattasse. Allungò il collo, piegandolo il più possibile. Poi la squadra scomparve dietro una curva dell’Habitat. Un rimorchiatore entrò nel suo campo visivo, e poi sparì, sorvolando con una curva aggraziata il modulo conferenze. Altri scampati? Quad o terrestri?
— Ehi! — Una voce eccitata dall’interno interruppe le sue frenetiche osservazioni. — Siamo fortunati, gente. Questo armadio è pieno di maschere di ossigeno. Devono essercene almeno trecento.
Van Atta girò la testa per individuare l’armadio in questione. L’ultima volta che era stato in quel modulo, gli era parso che fosse pieno di materiale audiovisivo. Chi diavolo aveva fatto quello spostamento, e perché?
Un colpo secco con un effetto strano, come quando si ha la testa infilata in un secchio e qualcuno ci batte sopra con un bastone, risuonò per il modulo. Forte. Grida e urla. Le luci si abbassarono, poi ritornarono, ma a un quarto dell’intensità normale. Erano passati al generatore di emergenza del modulo. L’energia proveniente dall’Habitat era stata staccata.
Ma non solo l’energia era stata staccata… Sconvolto, Van Atta vide l’Habitat roteare lentamente davanti all’oblò. No, non era l’Habitat che si stava muovendo… era il modulo. Un grido di sorpresa si levò dalla folla accalcata nel modulo, quando tutti cominciarono ad andare alla deriva ammassandosi verso una parete a causa della debole accelerazione impartita dall’esterno. Van Atta strinse convulsamente le maniglie accanto all’oblò.
E allora comprese. Ma comprese con una sensazione quasi fisica, che si irradiava dallo stomaco, si diffondeva nelle braccia e nelle gambe, e gli rimbombava nel cervello quasi volesse uscire dal cranio.
Tradito! Era stato tradito, completamente e su tutti i livelli. Una figura in tuta accanto a uno squarcio aperto su un fianco dell’Habitat agitava allegramente una mano in segno di saluto. Van Atta vide che quella figura aveva… le gambe, e impallidì per lo sconforto. Avrò la tua pelle, Grafi Avrò la tua pelle, figlio di puttana, maledetto doppiogiochista! La tua e quella di tutti quei piccoli idioti con quattro mani che sono con te…
— Si calmi, la prego! — gli stava dicendo la dottoressa Yei che in qualche modo era riuscita a raggiungerlo. — Che cosa c’è?
Van Atta si rese conto di aver borbottato ad alta voce. Si asciugò la saliva dagli angoli della bocca e rivolse uno sguardo furente alla dottoressa. — Lei… lei… lei non si è accorta di niente! Il suo compito era di sorvegliare tutto quello che facevano quei piccoli mostri e non si è accorta di niente… — Si protese verso di lei, senza un’intenzione precisa, mancò la presa su di una maniglia, roteò e scivolò lungo la parete. Il sangue gli pulsava nelle orecchie, tanto forte che temette per le sue coronarie. Rimase per un attimo a occhi chiusi, boccheggiando, sopraffatto dalle proprie emozioni. Controllo, disse fra sé, attanagliato dalla paura mortale di cedere di schianto. Controllo, mantieni il controllo.… poi riuscirai a mettere le mani su Graf. Su di lui, e su tutti gli altri…
CAPITOLO DODICESIMO
Leo si sfilò la tuta in mezzo a un coro di lamentele proveniente dai quad agitati.
— Che cosa vuol dire, non li abbiamo presi tutti? — domandò, sentendo svanire l’euforia. Aveva tanto sperato che i suoi guai, o almeno quella parte che riguardava i terricoli, sarebbe finita con l’accensione delle cariche che avevano staccato il Modulo Conferenze C.
— Quattro supervisori sono chiusi nel frigorifero degli ortaggi: hanno i respiratori e si rifiutano di uscire — riferì Sinda, dell’Alimentazione.
— E i tre uomini dell’equipaggio del traghetto che è appena attraccato hanno cercato di tornare alla loro nave — disse un quad con la maglietta gialla del dipartimento Stive e Portelli. — Li abbiamo intrappolati fra due portelli stagni, ma si sono messi ad armeggiare sui comandi di apertura, e non penso che potremo tenerli buoni ancora a lungo.
— Il signor Wyzak e alcuni supervisori dei sistemi di supporto vitale si sono, ehm, legati alle maniglie delle pareti nella Centrale Sistemi — riferì un altro quad vestito di giallo, aggiungendo, in tono agitato, — il signor Wyzak è certamente pazzo!
— Tre madri del nido si sono rifiutate di lasciare i loro piccoli — disse una ragazza più grande con la divisa rosa. — Sono ancora nella palestra con tutti gli altri piccoli. Sono molto turbati. Nessuno aveva detto loro che cosa stava succedendo, almeno fino a quando io sono rimasta là.
— E poi, ehm, c’è un’altra persona — si intromise in tono incerto Bobbi, della squadra saldatura e giunture. — Non sappiamo cosa fare di lui…