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— Lo so — disse Cleaver, raddolcito. — Più cose imparo di questo maledetto pianeta e meno sono disposto a votare «sì» quando verrà il momento. Bene, portate dunque la vostra siringa… e la vostra aspirina. Immagino che dovrei essere contento che non si tratti d’infezione, diversamente i Serpenti mi riempirebbero di antibiotici.

— Poco probabile. Non dubito che i Lithiani abbiano un centinaio almeno di farmaci che, in futuro, potranno servirci… ecco fatto, potete rilassarvi… ma prima dovremo studiare la loro farmacologia bene a fondo. Bene, Paul, distendetevi sulla vostra amaca, ora. Fra una decina di minuti, vi augurerete di non essere mai esistito, ve lo garantisco.

Cleaver sorrise. La sua faccia grondante sudore, sotto la massa paglierina di capelli biondi, esprimeva, nonostante la malattia, forza e potenza. Si levò ritto e cominciò a rimboccarsi la manica.

— E non ci sono dubbi su quale sarà il vostro voto, vero? — disse. — Voi amate questo pianeta, non è vero, Ramon? Da quel che ne so io, è un vero paradiso per un biologo — osservò.

— Sì, l’amo — disse il prete, sorridendo a sua volta. Seguì l’altro nella stanzetta che serviva a entrambi da camera da letto. Finestra a parte, assomigliava in tutto e per tutto all’interno di una brocca. I muri, incurvati e continui, erano fatti d’una specie di ceramica, che non trasudava mai l’umidità, ma non sembrava mai nemmeno asciutta del tutto. Le amache pendevano da uncini che sporgevano dalla parete e che parevano farne parte integrante, come se fossero stati messi in forno insieme con il resto della casa. — Mi piacerebbe che la dottoressa Meid potesse vederlo. Ne sarebbe ancor più deliziata di me.

— Non ho molta fiducia nelle donne scienziate — disse Cleaver in tono irritato. — Mescolano e confondono le emozioni con le ipotesi. Meid… che specie di donna è, comunque?

— Giapponese. Il primo nome della dottoressa è Liu… la sua famiglia segue l’uso occidentale di mettere per ultimo il nome di famiglia.

— Ah — fece Cleaver, perdendo interesse alla cosa. — Stavamo parlando di Lithia.

— Sì, ma non dovete dimenticare che Lithia è il mio primo pianeta extra-solare — disse Ruiz-Sanchez. — Credo che troverei affascinante qualsiasi nuovo mondo abitabile. L’infinita varietà e mutevolezza delle forme di vita e la particolare intelligenza implicita di ognuna di esse… Tutto ciò è sbalorditivo e affascinante nello stesso tempo.

— E perché questo non dovrebbe essere sufficiente? Che bisogno avete di unire un’idea di Dio a tutto ciò? È assurdo.

— Anzi, è proprio ciò che dà un senso a tutto il resto. Scienza e religione non si escludono a vicenda. Se ponete in primo piano il pensiero scientifico, escludendo la fede, se ammettete solo ciò che è provato, allora vi resta appena una serie di gesti vuoti. Per me, la biologia è un atto di fede, perché so che tutte le creature sono opera di Dio, so che ogni nuovo pianeta, con tutte le sue manifestazioni, è un’affermazione della potenza di Dio.

— Siete un uomo che ha dedicato la sua vita a una causa — disse Cleaver. — Benissimo. Lo sono anch’io. Ma io, invece, dico: «Alla maggior gloria dell’uomo.»

Si distese pesantemente sull’amaca. In capo a un certo intervallo, Ruiz-Sanchez si prese la libertà di alzargli e sistemargli sull’amaca l’altro piede, che Cleaver sembrava aver completamente dimenticato. Cleaver non se ne accorse. La reazione era già in atto.

— Esattamente così — disse Ruiz-Sanchez. — Solo che avete detto la prima metà soltanto: la seconda metà continua: «… e a maggior gloria di Dio.»

— Oh, Padre, risparmiatemi i vostri sermoni — sbuffò Cleaver, ma si riprese subito: — Scusatemi, Padre, ma il fatto è che per un fisico questo pianeta è un vero inferno… Dovreste darmi quell’aspirina, ho un gran freddo.

— Certo, Paul.

Ruiz-Sanchez si diresse in laboratorio, dove preparò una pasta di barbiturato salicilico in uno dei superbi mortai lithiani; compresse poi la pasta in modo da formare una serie di pillole. (Non era possibile conservare quelle compresse nell’umida atmosfera di Lithia, erano troppo igroscopiche.) Peccato non poter stampigliare su ciascuna compressa la scritta «Bayer» prima che si indurisse… se Cleaver riteneva che l’aspirina fosse la sua panacea universale, sarebbe stato meglio lasciargli credere che fossero davvero compresse di aspirina… ma, ovviamente, non aveva uno stampo a disposizione. Portò infine a Cleaver due di quelle pillole, con un bicchiere e una caraffa d’acqua filtrata secondo il metodo Berkefeld.

Il massiccio corpo di Cleaver era già annientato dal sonno; ma il Gesuita lo svegliò, più o meno. In grazia di questa lieve seccatura, Cleaver avrebbe dormito più a lungo e si sarebbe svegliato più avanti sulla via della guarigione. In realtà, il fisico quasi non si accorse di ingollare le due pillole, e in breve riprese a respirare in modo pesante e irregolare.

Allora Ruiz-Sanchez ritornò nella stanza principale, sedette e si mise a esaminare la tuta da giungla. Non fu difficile trovare la lacerazione prodotta dallo spino e constatare che la riparazione sarebbe stata cosa di poco conto. Molto più difficile sarebbe stato correggere la convinzione di Cleaver che le difese biologiche di un terrestre su Lithia fossero invulnerabili, e che si poteva andare a sbattere senza danno sulle piante spinose. Ruiz-Sanchez si chiese se gli altri due membri del Comitato d’Indagine su Lithia l’avessero già capito.

Cleaver, parlando del vegetale che l’aveva messo a letto, l’aveva definito un «ananasso». Qualsiasi biologo avrebbe potuto dirgli che anche sulla Terra l’ananasso è una pianta assai prolifica e pericolosa, e che il fatto che sia commestibile è soltanto un caso accidentale: fortunato, certo, ma irrilevante. Nelle Hawaii, come Ruiz-Sanchez ricordava bene, la foresta tropicale era insuperabile per chi non indossasse calzoni robusti e stivali. E anche nelle piantagioni, gli ananassi, strettamente vicini tra loro e molto robusti, potevano fare a pezzi le gambe di un uomo che non fosse adeguatamente difeso.

Ruiz-Sanchez rivoltò la tuta. La chiusura lampo che Cleaver aveva inceppato era fatta di una sostanza plastica, nelle molecole della quale erano incorporati radicali di diverse sostanze terrestri fungicide, in particolare il veleno protoplasmico detto thiolutina. I microrganismi lithiani non la aggredivano, certo, ma le complesse molecole dalla plastica stessa avevano la tendenza, a causa dell’umidità e del calore lithiani, a subire una polimerizzazione più o meno spontanea. E così quel giorno un dente della chiusura si era trasformato in qualcosa che assomigliava a un grano di «pop-corn».

L’aria si era fatta oscura. A un tratto s’udì un lievo scoppio soffocato, e la stanza s’illuminò di fiammelle d’un giallo tenue, provenienti da recessi posti in tutte le pareti. Il combustibile era un gas naturale, di cui Lithia possedeva riserve inesauribili, costantemente rinnovate. Le fiamme si accendevano al contatto di un catalizzatore, a misura che il gas usciva dal sistema. Una reticella di calce, montata su un semplice dispositivo a ruota e cremagliera di vetro refrattario, poteva essere introdotta nella fiamma per produrre una luce più intensa e brillante; ma al Gesuita non dispiaceva quella luce gialla, che del resto gli stessi Lithiani preferivano, e usava la luce alla calce soltanto in laboratorio.

Per certi usi, naturalmente, i Terrestri avevano bisogno dell’elettricità, e a questo scopo s’erano dovuti portare il loro generatore. I Lithiani erano molto più progrediti nell’elettrostatica dei Terrestri, ma in compenso ignoravano quasi tutto dell’elettrodinamica. Avevano scoperto il magnetismo soltanto pochi anni avanti l’arrivo del Comitato, dato che le calamite naturali erano sconosciute sul pianeta. Avevano osservato questo fenomeno per la prima volta non nel ferro, non possedendone quasi, ma nell’ossigeno liquido, sostanza molto difficile a utilizzarsi nella costruzione di un generatore!