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D’altra parte c’erano in serbo per lui abbastanza noie da tenerlo più che occupato. Il problema di orientarsi per la città non era dei minori, tanto per cominciare, e poi c’era quello dell’alloggio. Nessuna delle case religiose lo avrebbe accolto — la voce s’era diffusa — e le sue magre risorse non gli permettevano di scendere a un albergo, anche se (nel caso le cose volgessero al peggio) aveva riservato una camera in uno degli alberghi più cari: forse gli avrebbero consentito di dormire in un ripostiglio… La sola alternativa accettabile era quella di trovare una pensione, impresa tutt’altro che facile, dato che quella trovatagli dall’agenzia era troppo lontana da San Pietro. L’agenzia non aveva potuto far altro che consigliargli di dormire nel Rifugio, soluzione che lui era stato contrario ad adottare. «Dopo tutto — gli aveva detto in tono aggressivo l’impiegato dell’Agenzia, — è un Anno Santo!» Un po’ come se avesse detto: «Non sapete che siamo in guerra?».

Aveva ragione, l’impiegato. Si era in guerra, infatti. Il Nemico si trovava a cinquant’anni luce e nello stesso tempo era alle porte.

Qualcosa lo indusse a guardare la data sulla lettera di Michelis: risaliva, scoprì con stupore e inquietudine, a due settimane prima. Ma il timbro postale era in data odierna, la lettera era stata imbucata infatti soltanto sei ore prima, in tempo per il missile dell’alba in partenza per Napoli. Michelis doveva averla tenuta in tasca per molto tempo; o vi aveva apportato delle aggiunte? Ma la riproduzione fotografica e la riduzione, insieme con l’affaticamento degli occhi di Ruiz, non permettevano di scorgere la differenza.

Dopo un’istante, Ruiz capì tutto il significato di quel ritardo: la risposta di Egtverchi ai giornalisti era stata diffusa dalla televisione già da una settimana e il suo programma stava per essere diffuso di nuovo quella sera!

Il programma di Egtverchi era trasmesso alle tre del mattino, ora di Roma; Ruiz si sarebbe levato prima ancora del Pontefice medesimo. Anzi, pensò tristemente, non avrebbe dormito affatto, quella notte.

Il rapido entrò nella Stazione Termini con cinque minuti d’anticipo. Ruiz non ebbe difficoltà a trovare un facchino, gli diede la mancia universale di mille lire per portare le sue due valigie, e gli fornì alcune istruzioni. L’italiano del sacerdote era sufficiente, ma piuttosto fuori dell’ordinario; il facchino sorrideva deliziato ogni volta che Ruiz apriva la bocca. L’aveva imparato leggendo, in parte Dante, in parte libretti d’opera, e se anche il suo accento era difettoso, in compenso le sue frasi erano molto fiorite: non poteva chiedere dove fosse il fruttivendolo senza dare l’impressione di volersi gettare nel Tevere se non avesse ottenuto la risposta. — Che albergo? — chiedeva il fattorino ogni tre paròle di Ruiz. — Che albergo?

Comunque, sempre meglio che l’atteggiamento dei francesi, incontrato da Ruiz nel corso di un viaggio a Parigi, quindici anni prima. Ricordava ancora un tassista che si era rifiutato di comprendere la sua richiesta di essere portato al Continental Hotel finché egli non ne aveva scritto il nome su un biglietto, dopo di che l’autista aveva detto, fingendo un’improvvisa comprensione: «Ah, ah? Lee Con-ti-nen-TAL?». Aveva poi scoperto che questo atteggiamento era quasi universale in Francia; i francesi volevano far sapere al forestiero che senza un accento perfetto si è totalmente incomprensibili.

Gli italiani, a quanto pareva, preferivano venire incontro al forestiero a metà strada. Il facchino sorrise alla prosa fiorita di Ruiz, ma lo condusse subito a un’edicola di giornalaio, dove egli poté comprare un settimanale nel quale la proporzione di testo che affiancava le fotografie prometteva un sufficiente resoconto di ciò che Egtverchi aveva detto la settimana prima; poi il facchino lo condusse esattamente all’indirizzo che Ruiz gli aveva chiesto. Ruiz gli raddoppiò subito la mancia : una guida così rapida poteva venire utile, ora che il tempo era poco; forse avrebbe nuovamente incontrato l’uomo.

Il facchino l’aveva condotto alla Casa del Passeggero, che godeva fama di essere la migliore istituzione del suo genere in Italia, la qual cosa, come poi scoprì Ruiz, voleva dire che era la migliore del mondo, perché non ci sono in nessun’altra parte del mondo degli istituti esattamente uguali agli alberghi diurni italiani. Là egli poté lasciare i bagagli, leggere la sua rivista e mangiare qualcosa al caffè, farsi tagliare i capelli e lustrare le scarpe, fare un bagno mentre i suoi abiti venivano stirati, e poi cominciare la lunga serie di telefonate che, sperava, gli avrebbero permesso di passare la notte in un letto: preferibilmente lì vicino, ma comunque in qualsiasi posto di Roma che non fosse il Rifugio.

Sorbendo il caffè, nella poltrona del barbiere, e perfino nella vasca da bagno, aveva avuto il tempo di leggere e rileggere il resoconto della trasmissione televisiva di Egtverchi. Il giornalista italiano non riportava esattamente le parole, per ovvie ragioni (Egtverchi aveva parlato per tredici minuti: il resoconto stenografico avrebbe occupato un’intera pagina) ma aveva riassunto tutti i punti salienti della conversazione del Lithiano, senza trascurare un solo concetto, tanto che Ruiz-Sanchez ne rimase impressionato.

Evidentemente, per la sua risposta, Egtverchi aveva raccolto diverse notizie così come gli erano arrivate via radio e senza un criterio preciso; e se n’era servito per lanciare un brillante attacco estemporaneo alla presunzione e alla simulata moralità dei Terrestri. Il filo conduttore era stato riassunto dal giornalista italiano nella frase dell’Inferno dantesco: «Perché mi scerpi? Non hai tu spirto di pietade alcuno?», nel grido cioè dei Suicidi, che possono parlare solo quando le Arpie li straziano e il sangue scorre. Il tutto rappresentava un’accusa massiccia che, senza giustificare minimamente la condotta di Egtverchi, volgeva in ridicolo il fatto che potesse esistere uomo talmente senza macchia da avere il diritto di scagliare la prima pietra. Evidentemente, il Lithiano aveva assimilato da cima a fondo la violenta opera di Schopenhauer Norme per la discussione.

Il giornale italiano informava inoltre il suo pubblico che quando la compagnia televisiva aveva creduto opportuno sospendere le trasmissioni del signor Egtverchi, ne era stata impedita da una valanga di telefonate, telegrammi e radiogrammi. Ormai la compagnia televisiva, incoraggiata dalla ditta Bifalco, che finanziava il programma televisivo di Egtverchi, diffondeva quasi ogni ora informazione statistiche, comprovanti che le trasmissioni del Lithiano rappresentavano chiaramente un successo spettacolare. «Il signor Egtverchi — continuava il giornale italiano, — è ormai divenuto il collaboratore più prezioso che esista al mondo. Nessuno più dubita ora che il Lithiano verrà incoraggiato a mostrare ancor più chiaramente quegli aspetti del suo personaggio pubblico per i quali era stato prima condannato. Insomma, questa creatura extraterrestre è divenuta di colpo un’autentica miniera d’oro.»

L’articolo era insieme ben scritto ed eccessivamente acceso (combinazione caratteristica di Roma), ma Ruiz, non avendo il testo della trasmissione, doveva prenderlo così com’era. Tuttavia, sia i sunti del giornalista che la passione del suo linguaggio parevano giustificati: anzi, forse l’uomo aveva minimizzato la situazione.

Ma, almeno a Ruiz, parve di sentire direttamente la voce di Egtverchi. L’accento era familiare e perfetto. E la trasmissione era stata rivolta a un pubblico composto per metà di bambini! Era mai esistito veramente, si chiese il Gesuita, un individuo preciso, chiamato Egtverchi? Se sì, era posseduto dal demonio, ma Ruiz non poté crederlo. Non c’era mai stato un vero Egtverchi che il diavolo potesse possedere. Era da cima a fondo il prodotto dell’immaginazione dell’Avversario, come lo era stato Chtexa, come lo era stato l’intero pianeta di Lithia. Già nel simulacro di Egtverchi Egli aveva abbandonato ogni sottigliezza, già osava mostrarsi nudo; sostenendo menzogne, creando discordia, seminando malanni, corrompendo l’infanzia, uccidendo l’amore, sollevando eserciti…