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Più lontano (e di solito invisibile, anche durante il giorno, a causa della foschia dilagante) c’era l’altra costa della Baia Inferiore, che cominciava essa pure con pianure paludose, per poi continuare, al di là degli acquitrini, con la giungla che si spingeva a settentrione per centinaia e centinaia di chilometri, fino al mare equatoriale.

Dietro la casa, e visibile dalla finestra della camera da letto, si stendeva il resto della città, Xoredeshch Sfath, capitale del grande continente australe. Come la maggior parte delle città lithiane, la sua caratteristica che più colpiva un terrestre, era che essa pareva, per così dire, non esserci affatto. Le dimore lithiane erano basse e costruite con la terra ricavata dagli scavi per le fondamenta, così che sembravano essere tutt’uno col terreno circostante, anche agli occhi di un attento osservatore.

Molti degli edifici più antichi avevano forma rettangolare, ed erano costruiti in blocchi di terra pressata, senza calce. Con il passare dei decenni, i blocchi si assestavano e indurivano, e infine era più semplice lasciare inoccupato un edificio che più nessuno voleva, anziché demolirlo. Una delle prime disillusioni dei terrestri su Lithia era nata quando Agronski si era incautamente offerto di radere al suolo un tale edificio col TDX: un esplosivo polarizzato rispetto alla forza di gravità, sconosciuto ai Lithiani, che aveva la proprietà di esplodere lungo un piano orizzontale e che tagliava i profilati d’acciaio come burro. Il magazzino in questione, però, era grande, munito di pareti assai spesse, e aveva tre secoli lithiani (312 anni terrestri). L’esplosione si era svolta con uno schianto che aveva assai turbato i Lithiani, ma una volta spentasi l’eco, il magazzino era ancora in piedi, intatto.

Gli edifici più nuovi erano più appariscenti quando splendeva il sole: soltanto negli ultimi cinquant’anni i Lithiani avevano preso ad applicare all’edilizia le loro vastissime conoscenze sulla lavorazione delle sostanze ceramiche. Le nuove case assumevano migliaia di forme fantastiche — quasi biologiche, veniva voglia di dire — le quali, pur non essendo del tutto amorfe, non erano neppure uguali ad altre forme conosciute; ricordavano forse le costruzioni di sogno del pittore terrestre Dali, fatte con materiali come i fagioli bolliti. Ciascuna era unica, secondo il gusto del proprietario, eppure tutte partecipavano alle caratteristiche della comunità della terra dove erano nate. Anche queste case si confondevano perfettamente con il fondale del terreno e della giungla, ma molte di esse erano smaltate, e luccicavano in modo quasi accecante, per brevi momenti, nelle giornate di sole, quando la luce e l’angolo d’osservazione erano esattamente allineati. Queste macchie ondeggianti di luce, viste dall’alto, avevano indicato ai terrestri dove cercare la vita intelligente nascosta nella sterminata giungla lithiana. (Quanto al fatto che vi fosse vita intelligente sul pianeta, nessuno ne aveva mai dubitato; i tremendi impulsi radio emanati dal pianeta lo rivelavano anche a distanze astronomiche.)

Dalla finestra della camera da letto, Ruiz-Sanchez lanciò un’occhiata verso la città, almeno per la decimillesima volta, mentre si avvicinava all’amaca di Cleaver. Xoredeshch Sfath era per lui una cosa viva: non assumeva mai due volte lo stesso aspetto. La trovava stranamente affascinante. E singolarmente diversa: le città della Terra erano molto diverse tra loro, certo, ma nessuna di esse le assomigliava.

Ruiz-Sanchez esaminò il polso e la respirazione di Cleaver: tutt’e due erano troppo accelerati, anche per Lithia, dove l’alto tenore di anidride carbonica elevava l’acidità del sangue dei terrestri e stimolava i loro riflessi respiratorii. Il Gesuita ritenne comunque che Cleaver non corresse gravi pericoli finché il suo consumo d’ossigeno fosse rimasto all’attuale livello. Per il momento dormiva profondamente, anche se non pacificamente, e non gli avrebbe fatto male essere lasciato solo per un po’.

Certo che se un allosauro selvaggio avesse fatto irruzione nella città… ma era un’eventualità così inverosimile come quella di un elefante in libertà nel centro di Nuova Delhi. Una cosa che poteva accadere, ma che non accadeva mai. E non c’erano, su Lithia, altri animali pericolosi capaci di penetrare in una casa, se questa era chiusa. Nemmeno i ratti (o per meglio dire quegli innumerevoli esseri simili ai Monotremi che ne erano l’equivalente lithiano) potevano infestare quelle case dalle pareti di porcellana.

Ruiz-Sanchez cambiò la caraffa d’acqua fresca nella piccola nicchia presso l’amaca e, tornato nel vestibolo, calzò stivali, impermeabile e cappello da pioggia. Quando aprì la porta di pietra, i rumori notturni di Lithia gli vennero incontro insieme con una folata d’aria marina impregnata di quel caratteristico odore di alogeni che viene detto «odore salmastro». Cadeva una lievissima pioggia, che determinava degli aloni intorno alle luci di Xoredeshch Sfath. In lontananza, sul mare, si vedeva un’altra luce: in movimento, questa. Con ogni probabilità era il battello a ruote che faceva rotta, lungo la costa, per Yllith, l’enorme isola che si stendeva attraverso tutta la Baia Superiore e separava il Golfo di Sfath dal mare equatoriale.

Fuori, Ruiz-Sanchez girò la ruota che sbarrava dall’esterno la porta, facendo uscire delle spranghe su tutta la sua periferia. Poi, trattosi dalla tasca dell’impermeabile un pezzo di gesso, tracciò sulla tavoletta adibita a quell’uso i simboli lithiani che significavano: «Malato in casa». Sarebbe bastato. Chiunque lo avesse desiderato, poteva aprire la porta, semplicemente girando la ruota (i Lithiani non avevano il concetto delle chiavi e delle serrature) ma i Lithiani erano anche creature supremamente sociali, che rispettavano le loro convenzioni come rispettavano le leggi naturali.

Dopo di che, Ruiz-Sanchez si diresse verso il centro della città e l’Albero Messaggero. L’asfalto della strada rispecchiava le luci gialle delle case e quelle bianche dei lampioni, posti a intervalli regolari. Ogni tanto incontrava un Lithiano alto quattro metri, simile a un canguro, e tra di loro correvano sguardi di reciproca curiosità, ma non c’erano molti Lithiani fuori di casa a quell’ora: la sera amavano starsene in casa, dediti ad attività la cui natura sfuggiva al Gesuita. Talvolta li scorgeva, ora isolati, ora a gruppi, muoversi dietro le finestre ovali delle case davanti alle quali stava passando. Alcuni avevano tutta l’aria di parlare.

Di che mai potevano parlare?

Era un quesito interessante. I Lithiani ignoravano il delitto, i giornali, non avevano sistemi di comunicazione fra le case, né arti nettamente differenziate dalle loro industrie, né partiti politici; erano loro parimenti sconosciuti pubblici divertimenti, nazioni, giuochi; non avevano religione, sport, culti, celebrazioni varie. Ciò nonostante non potevano trascorrere ogni minuto della loro vita a scambiarsi cognizioni, a parlare di filosofia e di storia o a fare progetti per l’avvenire! O forse sì? Forse, pensò d’improvviso Ruiz-Sanchez, una volta entrati in quelle loro case simili a vasi di porcellana, i Lithiani piombavano nell’inerzia, come tante acciughe in barile! Ma, proprio mentre formulava questo pensiero, il sacerdote superò un’altra casa, e vide le loro figure muoversi avanti e indietro…

Un refolo di vento gli cosparse il volto di goccioline fredde. Automaticamente, affrettò il passo. Se quella notte ci fosse stato vento, numerosi messaggi sarebbero giunti e partiti dall’Albero Messaggero. Questo ora torreggiava su di lui; era una specie di sequoia gigante, ritta presso l’imboccatura della valle del fiume Sfath, la valle che attraverso numerosi meandri si spingeva fin nel cuore del continente, là dove il Lango di Sangue, o Gleshchtehk Sfath, rigurgitava i suoi torrenti massicci.