«Forse faremmo meglio ad arrostirlo, e a portarlo via comunque, ma non a Rompi. Chissà,» era la voce di Curly. «Ho sentito dire che la carne di questi stupidi è squisita.»
«Prova a trasformare questa ricerca in una partita di caccia, e Rompi ti farà finire davanti al Vecchio. Andiamo… abbiamo da lavorare.»
Don poté seguire l’avanzata dei due uomini ai margini del branco. Riuscì perfino a capire, dai suoni, il momento in cui i due soldati riuscirono a respingere a calci i più persistenti dei gregari che li seguivano. Continuò a restare seduto al centro della radura per molto tempo, dopo che gli ultimi suoni prodotti dai due soldati furono scomparsi in lontananza. Rimase seduto a terra, accarezzando il mento di un cucciolo che gli si era addormentato sulle ginocchia, e riposandosi.
Passarono i minuti, e forse le ore, e finalmente cominciò a farsi buio. Il branco cominciò i preparativi per passare la notte. Quando fu completamente buio, tutti i gregari erano sdraiati a terra, a eccezione delle sentinelle lasciate intorno al bordo della radura. Essendo stanco morto, e mancando completamente di qualsiasi piano d’azione, Don si dispose a passare la notte con le affettuose creature, con la testa appoggiata a una soffice, vellutata schiena, e fungendo a sua volta da cuscino a una coppia di cuccioli.
Per qualche tempo rimase con gli occhi aperti, guardando in alto. Il cielo scuro di Venere era sopra di lui; non c’erano stelle, in quel cielo, non c’era luna. Solo oscurità densa. Guardando quella coltre che copriva eternamente il cielo, Don meditò sulla propria situazione, poi cominciò a preoccuparsi del cibo e, ancor più urgentemente, dell’acqua. Passò qualche minuto; e poi Don non pensò più a nulla.
Il branco si agitò, come pervaso da un fremito, e si svegliò. Ci furono belati e grugniti, mescolati ai pigolii lamentosi dei più piccoli, che non erano ancora del tutto svegli. Don aprì gli occhi, cercò di orientarsi, riconobbe l’ambiente nel quale si trovava, e sì alzò in piedi a sua volta; sapeva vagamente cosa doveva attendersi… il branco stava per migrare. Raramente i gregari occupavano la stessa isola per due giorni di fila. Essi dormivano per la prima parte della notte, poi partivano prima dell’alba, nel momento in cui i loro nemici naturali erano meno attivi. Vagabondavano da un’isola all’altra, servendosi di strade, attraverso la laguna, dove l’acqua era meno profonda, percorsi noti… probabilmente per istinto… ai capi del branco. Certamente, i gregari erano capaci di nuotare; ma raramente ricorrevano a questa arte, preferendo i più comodi guadi delle stagnanti, immobili acque del mondo degli acquitrini.
Don pensò: Bene, così mi libererò presto di loro. Erano molto affettuosi e gentili; ma quel che è troppo, è troppo. Poi rifletté sulla situazione… se i vieni-sopra si trasferivano in un’altra isola, certamente non si sarebbe trattato di Isola Centrale, e certamente si sarebbe trattato di un’isola ancor più lontana da Isola Centrale di quella sulla quale ora si trovavano. Che cosa aveva lui da perdere?
Si sentì un po’ imprudente, e la decisione era certamente avventata, ma la logica sulla quale la decisione si reggeva non pareva offrire delle falle notevoli; quando il branco cominciò a muoversi, si accodò. Il capo li guidò attraverso l’isola, per circa un quarto di miglio, e poi entrò sicuramente nell’acqua. Il buio era ancora così profondo, che Don non si accorse di quello che stava accadendo, fino a quando non si ritrovò a sua volta con i piedi nella liquida tenebra che circondava l’isola. L’acqua gli arrivava alle caviglie, e non salì più di molto. Don affrettò il passo, cercando di restare bene al centro del branco, per non correre il rischio di finire in acque più profonde, nelle tenebre fittissime. Sperò che quella non fosse una delle migrazioni nelle quali i gregari ricorrevano all’arte poco usata di nuotare.
Cominciò a farsi giorno; la luce si diffuse tra le nubi eterne del cielo, e l’aria si fece più chiara, dapprima un vago, soffuso barlume, poi qualcosa di più. Il branco accelerò l’andatura; Don faticò a non perdere il contatto. A un certo punto, il vecchio maschio che guidava la bizzarra carovana si fermò, grugnì, e fece una brusca svolta; Don non riuscì a immaginare il motivo per cui il capo avesse cambiato strada, perché la nebbia del mattino era fittissima, e un punto dell’acqua nera pareva esattamente uguale a quello vicino. Eppure, la strada scelta si rivelò in acque poco profonde. La seguirono per un altro chilometro almeno, girando e cambiando lievemente direzione, a volte, e poi, finalmente, il capo salì sulla terraferma di una nuova isola, seguito da vicino da Don.
Don si lasciò cadere al suolo, esausto. Il vecchio maschio si fermò, evidentemente sconcertato, mentre il branco saliva a riva e si radunava intorno a loro. Il capo grugnì, e parve disgustato, poi si voltò e proseguì nel suo dovere di condurre il suo popolo verso i buoni pascoli. Don respirò più forte, cercò di chiamare a raccolta le forze, e seguì gli altri.
Nel momento in cui stavano uscendo dagli alberi che fiancheggiavano la riva, Don vide una staccionata alla sua destra, più lontano. Si sentì così felice, da avere quasi voglia di cantare.
«Arrivederci, amici!» disse ai gregari. «Io scendo qui.»
Si diresse verso la staccionata, pali di legno che reggevano un reticolato di metallo, mentre il grosso del branco proseguiva nella sua migrazione, per la strada opposta. Quando raggiunse la barriera, con riluttanza spinse e urtò i suoi attendenti, fino a quando non riuscì a liberarsene, poi cominciò a camminare lungo il reticolato. Prima o poi, si disse, avrebbe trovato un’apertura, e quell’apertura lo avrebbe ricondotto in mezzo alla gente. Non importava sapere di quale gente si trattasse; lo avrebbero sfamato, e gli avrebbero permesso di riposare, e lo avrebbero nascosto dagli invasori.
La nebbia era fittissima; una coltre biancastra che avvolgeva ogni cosa, come ovatta. Era una fortuna che ci fosse il reticolato a guidarlo. Avanzò a tentoni, tenendosi accanto alla barriera, sentendosi febbricitante — per la stanchezza e l’emozione — e un poco stordito, ma ugualmente di umore allegro, per i molti scampati pericoli, e per il buon esito della sua fuga apparentemente disperata.
«Alt.»
Don si sentì gelare. S’immobilizzò, automaticamente, scosse il capo, e cercò di ricordare dove si trovava.
«Ti ho individuato,» continuò la voce. «Vieni avanti lentamente, con le mani in alto.»
Don cercò disperatamente di vedere attraverso la nebbia, sforzando al massimo le sue pupille stanche, che dolevano e bruciavano un poco, e si chiese se avrebbe dovuto tentare di fuggire. Mettersi a correre, disperatamente, tuffarsi nella nebbia, cercare di nascondersi…
Ma, con una sensazione di completa e definitiva sconfitta, si rese conto che aveva già corso quanto gli era stato possibile, era fuggito fino a consumare, ormai, tutte le sue forze.
CAPITOLO XIII
I MANGIANEBBIA
«Non stare lì impalato. Muoviti o sparo!» ordinò la voce.
«Va bene, va bene,» rispose luì, con voce spenta, e si fece avanti, tenendo le mani in alto, sopra la testa. Pochi passi in avanti gli permisero finalmente di scorgere nella nebbia una figura umana; qualche altro passo, e riuscì a distinguere un soldato, con un corto fucile portatile puntato su di lui. Aveva gli occhi coperti da un paio di occhiali protettivi, enormi lenti scure che lo facevano sembrare un mostro improbabile, un insetto alieno giunto dalle remote profondità degli spazi siderali.
Il soldato intimò a Don di fermarsi a pochi passi da lui, e lo fece voltare lentamente. Quando Don si voltò, dopo avere descritto il giro completo che il soldato aveva chiesto, questi sollevò gli occhiali sulla fronte, mostrando degli occhi azzurri bonari. Abbassò il fucile.
«Amico, sei ridotto proprio male,» fu il suo commento. «Si può sapere che cosa hai fatto, in nome dell’Uovo?»